29 dicembre 2017




C'ERA UNA VOLTA SAN BABILA







      SANBABILINI FAMOSI - ANNI 70






"Una nostra storia, scritta solo da noi. Con dedizione e fedeltà"












Seguono i tre siti fratelli degli ex militanti di San Babila, menzionati in questo articolo.













Milano, piazza Duomo, il centro della città meneghina. Un monumento conosciuto in tutto il mondo. Lasciandosi la struttura religiosa sulla destra, andando dritto, si prosegue per corso Vittorio Emanuele, una delle tante vie dello shopping milanese. Dopo 500 metri, si sbuca in piazza San Babila, piazza che prende il nome dalla chiesa intitolata in ricordo del santo di Antiochia. Salotto buono milanese, è servita da una fermata della metro “rossa” e conosciuta come la piazza chic della città di sant'Ambrogio. Negli anni Ottanta era il centro del movimento dei “paninari”, una sottocultura molto importante nel panorama giovanile italiano dell'epoca. 



Negli anni Settanta però “San Babila” era un'altra cosa, era un trincea, un fortino. Dentro al “fortino” c'erano ragazzi poco più che maggiorenni che lottavano contro altri loro coetanei per il controllo del territorio: ragazzi di estrema destra contro ragazzi di estrema sinistra, fascisti contro “antifascisti militanti”, neri contro rossi, occhiali da sole Ray-Ban e stivaletti Barrows gialli contro eskimo e “Hazet 36”, giovanissimi contro altri giovanissimi, vite spezzate contro altre vite spezzate da entrambe le parti. Fenomeno sociale poco approfondito negli anni, quei ragazzi milanesi di destra avevano un nomignolo curioso che piaceva e non piaceva, “sanbabilini”. 



La storia di questo movimento, in auge tra 1967 ed il 1975 (con l'apice a partire dal 1971), è un tassello molto importante per capire non solo la strategia della tensione (1969-1980), ma anche gli “opposti estremismi” e la lotta senza quartiere durante gli anni di piombo. 


Nelle scuole e nelle università era iniziata in quel periodo (o comunque a partire dalla seconda metà degli anni Sessanta) una vera e propria “caccia al fascista” da parte di giovani vicini all'estrema sinistra, dai quali venivano stilate liste di proscrizione con i nomi di tutti coloro in odore, o vicini, al Movimento Sociale Italiano o che erano simpatizzanti del neofascismo, militanti o no. 


Erano gli anni della “hazet 36”, la chiave inglese usata negli scontri di piazza senza alcun indugio sui rivali “neri”. Come riconoscere i fascisti a Milano? Dall'abbigliamento e dai loro modi di porsi: se erano vestiti eleganti, indossavano occhiali da sole, jeans a zampa (usati anche dagli altri) e stivali erano fascisti. 


Ed i giovani di destra cosa facevano in questo ginepraio di violenza? Ovviamente non stavano a guardare e, se malmenati, rispondevano a tono, ma erano in pochi, rispetto a quanti erano i rivali. Fatto sta che l'unione faceva la forza e molti sabato pomeriggio la città era un continuo suonare di sirene della polizia e di cariche.


Camerati in Via Manzoni, Milano - anni 70



A partire dal 1967 la Giovane Italia, l'allora movimento giovanile del MSI, aveva una piccola sede al primo piano di un palazzo di corso Monforte al civico 13 a pochi passi da corso Venezia. Il gruppo giovanile del Movimento Sociale Italiano si era trasferito da via Serbelloni, in zona corso Venezia. Erano gli anni della Contestazione, delle lotte e delle manifestazioni politiche e studentesche e delle occupazioni delle fabbriche. Il partito neofascista ebbe un forte incremento di iscritti, ma non capì le necessità dei giovani. E i giovani in quegli anni videro nella bella piazza di San Babila una seconda “sezione” dove trovarsi e discutere. È il marzo del 1968 quando Gastone Nencioni, senatore del MSI, prende in affitto un appartamento a Milano, in corso Monforte 13, per farne la sede di Giovane Italia, un'associazione studentesca di destra. A un passo dalla sede di Giovane Italia c'è piazza San Babila, che pullula di giovani. Ciò che a un primo sguardo accomuna i ragazzi che affollano i bar della piazza è un'estetica molto lontana dai canoni della cultura di sinistra dell'epoca: niente capelli lunghi, eskimo, sciarpe rosse. La dirigenza missina li nota e inizia a vedere nella piazza il terreno ideale per fare proseliti - ma quell'ambiente si rivelerà ben presto molto più complesso e più difficile da tenere a bada. 


Gli extraparlamentari di sinistra avevano iniziato una guerra psicologica contro i neofascisti milanesi, fotografandoli per strada o mentre rincasavano oppure schedandoli. Gli scontri sono all'ordine del giorno. La stessa sede di corso Monforte viene più volte presa di mira e molti militanti di destra vengono aggrediti. Anche i sanbabilini hanno fama di essere violenti. A Milano i quartieri tendono sempre più a trasformarsi in zone "nere" e zone "rosse" con i fascisti in netta minoranza ma con una solida roccaforte. Sconfinare vuol dire provocare, soprattutto se lo si fa "in uniforme"- ossia indossando i simboli di una o dell'altra parte: i quotidiani sono pieni di trafiletti che raccontano risse per motivazioni banali come un eskimo indossato nel posto sbagliato. Per quanto riguarda l'estetica sanbabilina invece i punti fermi sono i Ray-Ban da aviatore, gli stivaletti Barrows a punta, le giacche di pelle nera. Rune, croci di ferro, ciondoli con simboli fascisti completano il tutto, mentre i capelli sono spesso rigorosamente corti.

L’estrazione sociale dei neofascisti è perlopiù borghese, con una forte componente della “Milano bene”, anche se non mancano i proletari. Ci sono ragazzi di buona famiglia che simpatizzano per il MSI o per le formazioni extraparlamentari nere. Alcuni sono culturalmente ben inquadrati, gravitano attorno a La Fenice, periodico vicino all'organizzazione neofascista Ordine Nuovo, leggono Evola, Nietzsche, Jünger e vari autori della "rivoluzione conservatrice" tedesca. I loro capisaldi sono l’onore, la fedeltà, la lealtà, la gerarchia, l’aristocrazia del sangue. 


Nel giugno 1970 successe qualcosa di inaspettato: la fusione di Giovane Italia e raggruppamento in un’unica sigla con il Fronte della Gioventù, con la chiusura della sede di corso Monforte per spostarla in via Burlamacchi, nei pressi di corso Lodi, in Porta Romana. A capo del partito missino a Milano c’era Franco Servello, mentre a capo dei giovani c’era Gianluigi Radice. Il nemico interno di Servello era Nencioni, che puntava sempre di più a diventare il leader della Fiamma milanese, anche se lo stesso Nencioni aveva il timore che dare corda ai giovani poteva rivelarsi controproducente, visto l’andamento della violenza. E questo fu il principale motivo che portò alla chiusura della sede di corso Monforte. Il trasferimento segna un punto di svolta perché, se l'associazione va via, i militanti restano in strada - o meglio, in piazza. I sette bar di piazza San Babila - il Pedrinis e l’Europa all' angolo con corso Venezia, il Motta, l'Harry’s Bar in corso Europa, il Donini, il Borgogna, il Quattro Mori - diventano le "basi" abituali dei sanbabilini, dei luoghi d'incontro e socializzazione che col tempo si trasformano in veri e propri quartier generali da difendere quando vengono presi di mira dalle azioni della sinistra con sassate, molotov e ordigni artigianali. Nei bar ci si incontra, si beve, si chiacchiera ma si pianificano anche azioni, spedizioni punitive e vendette. 


Il “sanbabilino” non condivideva la scelta “doppiopettista” di Almirante e del partito, vicino alle cause governative e lontano parente di quello a cui la Repubblica Sociale si ispirò. Molti “sanbabilini” quindi erano antimissini, anche se avevano in tasca la tessera e alcuni di loro facevano gli “attacchini” di sera. 


Lo spazio nemico dei “sanbabilini” era la vicina università “Statale”, Molti giovani, nonostante la “tessera”, non accettarono il trasferimento della sede giovanile in periferia ma optarono per piazza San Babila, non solo perché centrale, ma perché vicina alla “Statale” feudo del Movimento studentesco. Una sede all'aperto, esposta a tutti i rischi del caso, un vero fortino da difendere contro i nemici comunisti e dell'estrema sinistra. 


Eppure i giovani con in tasca la tessera missina erano malvisti da tutti gli altri camerati,  convinti che il partito non fosse più “rivoluzionario”, ma che si era troppo imborghesito e “democristianizzato”. 




I “SANBABILINI” più noti




Oltre un centinaio di ragazzi tra i 16 e i 25 anni stazionavano a piazza San Babila.


Fra i più noti si ricordano:



Maurizio Murelli, 

Rodolfo Crovace,

Cesare Ferri,

Giovanni Ferorelli,

Nico Azzi,
            
Giancarlo Rognoni,

Giancarlo Esposti,

Riccardo Manfredi,

Attilio Carelli,

Lino Guaglianone,

Davide Petrini,

Mauro Panzironi,

Umberto Vivirito,

Alessandro d'Intino,

Alessandro Danieletti,

Biagio Pitarresi,

Angelo Angeli,

Vittorio Loi,

Fabrizio Zani,

Roberto Locatelli,

“Franz” de Min.



Il più noto “sanbabilino” è stato senza dubbio Maurizio Murelli. Milanese del 1954, da sempre fascista dichiarato, è stato un'anima di San Babila. Il suo nome salì all'onore delle cronache durante gli scontri con la polizia durante quello che è passato alla storia come il “giovedì nero di Milano” (12 aprile 1973), dove perse la vita il poliziotto Antonio Marino per mano di una bomba lanciata da Vittorio Loi e passatagli dallo stesso Murelli. 



Altro nome forte è stato quello di Rodolfo Crovace, detto “Mammarosa”. Di origine pugliese, emigrò da giovanissimo al Nord in cerca di fortuna. Ragazzo gentile, disponibile, generoso e pronto all'azione (violenta), è uno dei simboli della Milano fascista degli anni 70. Già noto alle forze dell'ordine, è stato indagato per tante aggressioni a persone vicine all'estrema sinistra e per gli scontri davanti al bar “Harris”. Come molti “sanbabilini” venne “abbracciato” dalla malavita e il 3 luglio 1984 fu ucciso durante uno scontro a fuoco con la polizia nella sua abitazione di via Pastorelli, nei pressi di viale Cassala. 



Indimenticabile è Cesare Ferri. Vicino a Ordine Nero, movimento neofascista accusato di ben dieci attentati dinamitardi. Oggi è un giornalista e ha messo alle stampe un romanzo in cui racconta tutta la vicenda di San Babila. Ferri fu accusato per le bombe delle Squadra d'Azione Mussolini (SAM) e della strage di Brescia del 28 maggio 1974, per cui fu incarcerato ma poi prosciolto e rimborsato per l'ingiusta detenzione. Attivo sia verbalmente che fisicamente, nel suo libro Ferri spiega per filo e per segno cosa è stato il “fenomeno san Babila”, dalla sua gestazione all'uso della violenza come metodo unico contro la violenza rossa. Come dire: picchiare per non essere picchiati e sopravvivere in una città che considerava San Babila un ghetto e una zona da non frequentare.



Riccardo Manfredi e Gianni Nardi erano due personaggi di spicco della piazza milanese. Prestanti, carismatici, erano molto attivi dal punto di vista “fisico” piuttosto che ideologico. Manfredi era vicino ad Avanguardia Nazionale, mentre Nardi era lontano dal concetto di partito, anche se in gioventù fu membro della Giovane Italia. Manfredi morì il 3 giugno 1978 in una rocambolesca fuga da un treno mentre si recava in tribunale, mentre Nardi morì a Palma di Maiorca nel 1976 in un incidente stradale “misterioso”, probabilmente ad opera dei servizi segreti. Nardi fu tenente dei paracadutisti e credeva al colpo di stato militare in Italia.


Decisamente più impegnato ideologicamente, appartenente alla Milano e alla San Babila “bene”, militante di Avanguardia Nazionale fu John Pezza, affettuosamente chiamato dai suoi camerati “John John”, di madre inglese. Frequentava assiduamente anche l'estrema destra romana, era atleta della squadra azzurra di scherma e si distingueva per la sua aristocratica eleganza, tanto da venire pure chiamato “Piccolo Lord”. Tra i sanbabilini era uno dei più corteggiati, alto, bello, occhi azzurri espressivi e affascinanti. Fu grande amico di Gianni Nardi, ma soprattutto del romano Alessandro A. che dai Parioli veniva spesso a trovarlo a Milano, o viceversa. I due erano pressoché inseparabili e la loro seppure breve amicizia fu molto più di un mito. La tragica fine di Alessandro lo scosse duramente e segnò la fine della sua militanza. È molto probabile che fosse membro di “Gladio” e fu tra i tanti ad andare a vivere in Sud America. Di lui si ricordano le riunioni che organizzava  per divulgare tra i camerati il pensiero di Evola di cui era un grande ammiratore.



Ma il nome più altisonante di piazza San Babila è stato, senza dubbio, Giancarlo Esposti. Lodigiano del 1949, era stato in passato un paracadutista e aveva una certa conoscenza di tutto ciò che era di tipo militare. Ex membro della Giovane Italia, fu uno dei primi a passare da corso Monforte a piazza San Babila dove divenne uno dei più presenti, nonché uno dei più attivi.



Esposti morì il 30 maggio 1974 dopo un conflitto a fuoco con i carabinieri a Pian del Rascino, anonima località sugli appennini al confine tra il Reatino e l'Abruzzo dove dal 68 organizzava i campi paramilitari . Con lui c'erano Danieletti e d'Intino. Un identikit di Esposti era nelle mani della polizia bresciana e milanese per la strage di piazza della Loggia, anche se si scoprì che era del tutto estraneo ai fatti. Si disse che qualcuno avesse fermato Esposti nella sua azione terroristica, ma ciò non è stato mai confermato. Il nome di Esposti è legato alle SAM, le Squadra di Azione Mussolini, operanti a Milano tra il 1971 e il 1973 traendo spunto da un gruppo neofascista operante in città nei mesi successivi la Liberazione.



                       GIANCARLO ESPOSTI



                                           



                                                   






                              GIANNI NARDI
















                            "JOHN JOHN"













                                       

       

           John John, cinquant'anni dopo...                     




                            CESARE FERRI






       
                    




                         Cesare, cinquant'anni dopo...







                        MAURIZIO MURELLI





                        






                        Maurizio, cinquant'anni dopo...






     RODOLFO CROVACE "MAMMAROSA"








                      




Ha senso parlare oggi dei fatti di san Babila? Ovviamente sì, perché le vicende della piazza nera milanese sono state uno spaccato di un’Italia che ora non c’è più.
Per la difesa di una piazza e di un’ideologia molti diedero via i migliori anni della loro vita, tra risse, battaglie, menomazioni, carcere e morte.
Non si tratta di riabilitarli, ma di far sapere che bisogna sempre lottare per i valori che hanno sempre espresso il loro ideale!







Riporto alcuni versi di un mio vecchio amico e camerata:




SAN BABILA ADDIO



“Epiche giornate, attimi di speranza, allegria, tristezza, vite che si intrecciavano, destini già segnati eppure ancora tutti da scoprire.


Oggi ti guardo ormai vuota, ovunque è solitudine, ombre, volti anonimi, indifferenti, voci che non sento.


Cammino, ritorno lungo la strada del tempo che tutto spazza via e trasforma. Luce che illumini d’improvviso, disperdi la polvere, scuoti e risvegli dal torpore gli assopiti.


Ecco, ti rivedo finalmente viva, impavida e fiera come allora, risento alta e forte la voce degli amici, la pelle è accarezzata dolcemente dalla prima tiepida primavera.


Ma è già tramonto. Tutto scompare. Si dileguano le rimembranze, torna il silenzio. Sei stata nostra… per sempre grazie, non ti dimentichiamo”.


“John John”











Sanbabilini - "San Babila ore 20" - Carlo Lizzani

 

“Ognuno ha la libertà che gli spetta, misurata dalla statura e dalla dignità della sua persona„ J Evola




Sino agli anni trenta non era una piazza, ma era solo uno slargo che si apriva sul Corso Vittorio Emanuele e sulla Basilica, dedicata a San Babila Vescovo. Larga parte delle architetture che delineano Piazza San Babila risalgono agli anni trenta, in epoca fascista. Nel corso degli anni sessanta inoltre la piazza accentuò la propria connotazione come “luogo della destra”. Già all’indomani della guerra secondo Tommaso Staiti di Cuddia, allora parlamentare , piazza San Babila era una sorta di “sede aggiuntiva” dei locali della Giovane Italia e del Raggruppamento giovanile di corso Monforte 13.

«San Babila – spiega Staiti di Cuddia – la scoprimmo io e Franco Petronio quasi per caso passeggiando a Milano intorno al 1967. C’erano le avvisaglie della contestazione ed una sera vedemmo stazionare dei ragazzi, che in maniera estetica, esprimevano una gioventù diversa da quella dei capelloni e degli hippies. Nel frattempo Nencioni aveva trovato una sede per la Giovane Italia ed il Raggruppamento giovanile in via Monforte, a due passi da San Babila. La sede non era molto grande ma il pomeriggio e la sera erano alcune centinaia di ragazzi che gravitavano fra la sede e San Babila». E’ proprio negli anni settanta che nasce il neologismo “ sanbabilino”. La storia di questo quartiere si mischia dunque con la storia della città che negli anni settanta è stata un crocevia di persone, realtà e tendenze.

(Nicola Rao, La fiamma e la celtica, Milano, Sperling & Kupfer, 2006. Pg.174)


SUL FILM "SAN BABILA ORE 20" DI CARLO LIZZANI





Un film commissionato da PCI-DC anni 70 a Carlo Lizzani (comunista, iscritto al partito) per offrire all'opinione pubblica un ritratto completamente falsato e tendenzioso della Destra milanese di quei tempi.

È bene che si sappia oggi che non era quella la nostra San Babila. Non erano quelli i veri Sanbabilini. Non era quella la vera Destra.

Ricordiamoci piuttosto della sinistra degli anni 70. La sinistra dei “servizi d’ordine” del Movimento Studentesco, Lotta Continua, Potere Operaio etc.etc. munita di Hazet 36 e bottiglie Molotov che distruggeva e incendiava indisturbata per le vie di Milano.
Il comunismo è fallito, morto e sepolto. La Destra, quella vera, è una fiamma che non si spegne.


NOI SANBABILINI



Che dire dei commenti di coloro che dalla periferia pretendono di raccontarci, di spiegare chi eravamo, cosa volevamo e come agivamo? Gente che ragiona "per sentito dire", che non si rende conto di quanto fossimo impegnati politicamente, al di là dei modismi e degli stereotipi del sanbabilino. Gente che negli anni settanta non ha mai speso una parola per condannare le aggressioni  dei “compagni” dei vari gruppi della sinistra (extra parlamentare e non). Tanto per intenderci: chi era di sinistra era sempre “un bravo ragazzo”. Quelli di destra? Tutti delinquenti…

Ci sostenevano forze poderose, spesso occulte, che avrebbero favorito l'avvento di uno “Stato Forte”, se fosse andata come speravamo. Non certamente il MSI sempre in bilico tra l’essere e il non essere e che presto abbandonammo. Perché non funzionò? Chiedetelo ai servizi segreti italiani e ai loro padroni (americani). Del resto non racconto nulla di nuovo: tutto ciò è cronaca ormai più che nota .

Malavita a San Babila? Non si può generalizzare. Tra noi come un po' dappertutto (vero compagni?) c'era anche chi di politica non si interessava proprio.  Scorrete piuttosto i nomi di coloro che sedevano allora e siedono oggi nei (s)parlamenti di mezzo mondo. Vi troverete l’aristocrazia dei malavitosi, maestri dell'intrallazzo, tangenti e compromesso. E non vado oltre.

Leggevamo Julius Evola. A lui ci ispiravamo. Pochi ci hanno seguito.

Si discuteva di un mondo sempre più abbrutito e decadente, specchio di una società strutturata “dal basso verso il basso”. Della scomparsa totale dei valori della Tradizione secondo cui un individuo è superiore ad un altro non per razza, ma per i valori spirituali  che lo distinguono e in cui crede. Del resto basta guardarsi attorno per constatare quanto l’assenza di tali valori si rifletta prepotentemente sul mondo esteriore. Il rozzo che prevale sull'evoluto, il disordine sull’ordine, la massificazione dell’individuo intesa come dogma dei nostri tempi. Un individuo che non aspira più ad emergere dalla massa e che sempre più si compiace della definitiva consacrazione di una società tribale e populista.

Una volta i titoli nobiliari si guadagnavano sui campi di battaglia. Oggi gli aristocratici  (ma conoscono ancora il significato di ἄριστος?!) si fanno notare alle festicciole dei più o meno (s)coronati tanto per alimentare i gazzettini da sala d’aspetto del gossip internazionale.
Una volta a scuola si imparavano anche ordine e disciplina. Oggi…ma la scuola esiste ancora??!!

Negli anni settanta a San Babila lottavamo con tenacia per difendere i nostri ideali opponendoci con tutte le nostre forze all’offensiva marxista. Eravamo rivoluzionari. Convinti!

La storia poi  insegna che se la rivoluzione ha esito positivo ci consegna i nuovi padri della Patria. Se fallisce  solo una schiera di criminali da giustiziare.    


A quei tempi dunque abbiamo saputo “cavalcare la tigre”! La tigre continueremo sempre  a cavalcarla. In attesa di un nuovo Risorgimento.



Bar Donini - Gin Rosa sotto i portici di Piazza San Babila, primi anni 70







SAN BABILA, FASCISTI, POESIA E VECCHI CAMERATI



Sanbabilini a San Babila, Camerati, Fascisti,  anni 70 Milano:      BAR EUROPA – AL CENTRO CON LA CAMICIA BIANCA RODOLFO CROVACE – Ricordi dei nostri vent’anni.



1968-2018     50 anni – Il '68 fu anche “nostro”, ma il MSI questo non lo capì… Pazzesco!




Riporto un post ricevuto alcuni anni fa da un caríssimo amico e camerata e che solo oggi mi sono deciso a pubblicare




                                  Salve a tutti !


Comprendere oggi cosa rappresentò per noi questa piazza di Milano negli anni settanta è piuttosto arduo.


L’impegno politico che coinvolse tutta quella nostra generazione non trova riscontro nei giovani d'oggi.


Furono anni di militanza a tempo pieno, di sofferenze e di violenza in cui tutti noi eravamo impegnati in una incessante lotta politica e fisica che ci unì creando legami indissolubili di fratellanza che il tempo non è mai riuscito a cancellare.



Di quella nostra mitica piazza vorrei così ricordare due carissimi amici e Camerati.



Il primo che ha scritto questa poesia dedicata ai Fratelli che hanno vissuto l'esperienza di San Babila.



Il secondo, amico indimenticabile ormai da anni in Sud America.



Grazie Cesare della poesia , della tua amicizia e della tua Fratellanza!



Ciao "John John", campione, anche tu “adesso così lontano” ma per sempre con noi!!!.


Andrea




Cesare Ferri










John John











SAN BABILA


poesia di Cesare Ferri



Di quegli incontri serali 

con cari amici, adesso così lontani o già morti, 

ricordo ancora la brezza che mi pungeva la pelle

e il terso cielo primaverile 

sopra la nostra grande piazza ormai vuota.



Giocavamo col tempo accanto alle colonne

aspettando la notte

e poi l’alba,

facendoci beffe del sonno più intenso.


Dove sono ora i vivi e i morti?

Si era giovani, come nessuno lo è mai stato,

ma ci sentivamo anche tanto vecchi

da essere addirittura stanchi

della nostra grande piazza.

E non soltanto di quella.


Eravamo in pochi? In molti?

Che importanza ha,

eravamo noi,

così puliti, così pazzi,

così spaventosamente ingenui.


I portici sono ancora lì a ricordarmi,

ogni volta che passo,

i miei felici vent’anni

e i cari amici di allora,

adesso così lontani

o già morti,

ma sempre vivi, 

nella mia memoria,

insieme a quelle chiare sere di marzo.





da: Divagazioni di un annoiato


(Cesare Ferri)





Milano, San Babila, anni '70: militanti della "destra radicale". Nella storica foto si riconoscono da sinistra: Mario Marino, Gianni Ferorelli, un detenuto comune, "Mammarosa" Rodolfo Crovace e Maurizio Murelli (arrestato assieme a Vittorio Loi figlio del pugile per l’uccisione dell’agente Antonio Marino il 12/04/1973).






QUANDO SAN BABILA ERA LA TRINCEA CONTRO I COMUNISTI



Avevo 14 anni quando due amici, che allora si chiamavano «camerati», mi portarono in San Babila, in mezzo a tanti ragazzi più grandi che l’avevano trasformata nella trincea del neofascismo milanese.




Ricordo i bar che non ci sono più (i Quattro Mori) e quelli che hanno cambiato nome (Borgogna, Pedrinis, Donini) e l’idealismo mischiato alla violenza, il coraggio all’incoscienza, la protervia alla generosità di quelli che ho conosciuto bene e di quelli che ho solo incrociato.




Parecchi di loro non sono arrivati agli anni Ottanta. Alcuni (con le armi in pugno) ci hanno lasciato la pelle difendendo un’idea o buttando la propria vita. Retorica? Chiedetelo a chi li ha vissuti quegli anni, quando chi era di destra usciva di casa senza sapere se sarebbe rientrato.




Allora San Babila divenne un territorio da difendere strategicamente, nato dai fuoriusciti dalla Giovine Italia di Corso Monforte 13. 


Contro il luogo comune che vuole i sanbabilini tutti fighetti e figli di papà si incrociavano così il mitico immigrato Mammarosa, concentrato di forza bruta e di sanguigna umanità che menava come un fabbro, e coloro che avrebbero fatto dell’etica e della politica una ragione di vita.




C’erano le Barrow's e i RayBan ma anche Nietzsche ed Evola. Un mondo folle in cui si sovrapponevano diverse «San Babila», quella dei ragazzi per bene che bevevano il the al Motta e quella di chi ha fatto la cronaca e la storia.




«Dopo gli arresti per gli incidenti del 12 aprile ‘73 e per la strage di Brescia - mi ricorda Maurizio Murelli, oggi promotore dell’Editrice Barbarossa e della rivista Orion - la nostra San Babila è morta».




Eppure in quegli anni si respirava un clima naïf. «Come la sinistra ha rotto il cliché del comunista stalinista, noi abbiamo superato quello del vecchio fascista inventando un nuovo futurismo» chiosa Murelli.





Cesare Ferri - protagonista di quegli anni, oggi scrittore - ha descritto quei giorni nel romanzo Una sera d’inverno e dice: «Volevamo che la società bacchettona cambiasse e non cadesse in mani comuniste.




Dal canto loro i rossi ragionavano in modo uguale e contrario. Si scontravano due visioni del mondo». Di quel periodo mi sono rimaste amicizie profonde e sincere, che hanno superato la prova del tempo e che si nutrono di cose semplici. Per questo mi chiedo: a cosa serva riappropriarsi di San Babila?.




«San Babila è qualcosa di più che una piazza dove mettere un gazebo - mi dice Ferri -, è un lungo elenco di nomi e dietro ci sono storie di ragazzi uccisi o con la vita disintegrata dalla repressione.




Tutti dimenticati, vivi e morti. Manifestino pure, ma sappiano che chi allora c’era davvero, considera questo un riconoscimento tardivo. Lo dico senza risentimento ma, casomai, con un po’ di tristezza». 


(Antonio Lodetti - Il Giornale)


Camerati – Milano - Corso Monforte 1970





 



               


INDIAN SUMMER 70 - C'ERA UNA VOLTA SAN BABILA





Maurizio Murelli
Editore: AGA (Cusano Milanino)
Anno edizione: 2015
Pagine: 400 p., Brossura



San Babila, anni '70: in questa piazza al centro di Milano un gruppo di amici accomunati dalla passione politica trascorre una parte della giovinezza in un turbinìo di avventure sospese fra militanza estrema e spensierata goliardia. Quarant'anni dopo, uno straordinario concatenarsi di drammatici eventi li porta a ritrovarsi e a rinnovare il vincolo dell'antico cameratismo: l'autunno della loro esistenza sboccia imprevisto e il gruppo vivrà in pienezza una travolgente Indian Summer. Il romanzo a cui Maurizio Murelli lavorava da anni... finalmente vede la luce. La voce di un protagonista diretto, il racconto di un'e'poca di sogni e ideali, di visioni lontane.... Dei protagonisti di "quei tempi", ben pochi hanno mantenuto gli stessi ideali e le stesse "visioni". Maurizio è uno di questi. Vivamente consigliato dallo staff di casualnonconforme.







CESARE FERRI – I RAGAZZI DI SAN BABILA


                                  




Cesare Ferri - San Babila  La nostra trincea - Edizioni Settimo Sigillo - Euro 25.


                  


                                         Antonio Lodetti per “il Giornale”






«Qui non ci sono suggerimenti né politici né ideologici perché altro era il mio scopo: raccontare la storia dei ragazzi di San Babila, tra i quali c'ero anch' io, che hanno combattuto per un ideale». Questa è la frase centrale della prefazione di Cesare Ferri al suo romanzo storico-autobiografico San Babila. La nostra trincea


Cesare Ferri



Finalmente, un vero spaccato, senza voli pindarici e millanterie, su quello che fece il neofascismo milanese (si noti che Ferri non scrive mai «sanbabilini», termine coniato dai media, ma sempre «fascisti») negli anni '70.



Ferri e i suoi camerati non volevano essere travolti dall' ondata rossa che partendo dalla Statale aveva sconvolto Milano. Da qui nasce il racconto di una gioventù ribelle e violenta unita da un fedele attaccamento all' idea di fascismo.



Ferri racconta le sue battaglie in piazza insieme a Giancarlo Esposti (poi morto nel noto conflitto a fuoco coi carabinieri a Pian del Rascino), con Gianni Nardi, con il «mazziere» Mammarosa e con tanti personaggi ormai morti e dimenticati come Riccardo Manfredi e Marco Petriccione...



Racconta dei suoi coltelli, delle sue pistole, dei suoi attentati prima con le SAM (Squadre Azione Mussolini) poi con Ordine Nero, del rapporto fedele e sincero (al limite del fanatismo) che lo legava ai camerati nelle varie azioni.



 Sembra un mondo lontano anni luce, ma a quei tempi se si aveva la «colpa» di portare le scarpe Barrows o i RayBan calati sul naso, si rischiava di farsi spaccare la testa a colpi di spranga o di «Hazet 36», quindi i ragazzi di San Babila - che erano in netta minoranza rispetto ai rossi - hanno deciso di difendersi con la violenza. E fu una sorta di guerra civile...





COMMENTO DI PIGI ARCIDIACONO





Perché sia importante il romanzo di Cesare Ferri: “SAN BABILA - La nostra trincea” (che toccherà leggere e incrociare con il primo tomo di Maurizio Murelli) ce lo spiega un altro scrittore che di quella comunità ha fatto parte, Pigi Arcidiacono.

- In primis, Ferri è bravo Autore: ha pubblicato molti romanzi e scritto testi teatrali: scrivere è il suo “mestiere”, non è un improvvisato al quale a un certo punto sovviene il desio di narrare le sue storie di gioventù.


Ferri è uomo di Filosofia raffinata, cosa importante nel mantenere vivo il realismo dei “personaggi” seppur insegnando qualcosa che nella mediocrità quotidiana dei più può sfuggire.


Cesare Ferri, “Cesarino” per alcuni, piazza San Babila l’ha vissuta davvero (dall’inizio alla fine): era poco più di un ragazzino quando frequentava la sede della “Giovane Italia” in corso Monforte (nel 1968) ed è rimasto lì, sotto ai portici, sino (praticamente) alla fine della “vera” San Babila, nel 1973/1974.


- Ferri è stato vittima di una repressione insensata e accusato ingiustamente a tal punto che a un certo momento qualcuno ha pensato (giustamente) che dovesse essere risarcito.
- Cesare ha nel cuore i ragazzi di allora. Tutti. Quelli che sono ancora vivi e quelli che non ci sono più. Li ha nel cuore davvero.


- Il libro di Ferri (pur essendo un romanzo) è un importante strumento storico. Non fa parte di quel “revisionismo di parte” (anche se potrebbe apparire così), ma di quella “lettura” storiografica sopita e “repressa” dai poteri forti che, come si dice, “essendo vincenti, la storia la scrivono”...
- Ferri ha meditato a lungo questo scritto. Chi lo conosce sa che era contrario a narrare le storie di San Babila, forte di quella saggezza che è virtù e riconosce quando sia giusto parlare e quando sia giusto tacere.


- In ultimo...
Ferri è mio amico (quindi fidatevi).



“SANBABILINI” – Un bellissimo libro di Pierluigi Arcidiacono. Vale la pena leggerlo. Grazie Pigi!!!

UNA PIAZZA COME ROCCAFORTE: UN LIBRO RACCONTA LA STORIA DEI “SANBABILINI”

Pierluigi Arcidiacono




di Roberto Derta -  6 dicembre 2017


Roma, 6 dic – Raggiunge finalmente le librerie Sanbabilini, il saggio storico di Pierluigi Arcidiacono che narra le vicende dei giovani fascisti milanesi che della piazza più centrale di Milano – piazza San Babila – fecero la propria “roccaforte” alla fine degli Anni Sessanta e negli Anni Settanta. Il volume era atteso da tempo (più di due anni), ma l’Autore ha voluto lasciare la precedenza a due protagonisti di quelle vicende e ai loro libri: “Indian Summer ’70 – C’era una volta San Babila” (A.G.A. – 2015), di Maurizio Murelli; e San Babila – La nostra trincea”, di Cesare Ferri, edito nel 2016 dallo stesso Editore di Arcidiacono (edizioni Settimo Sigillo). Inoltre, come spiega lo stesso Autore per spiegare il ritardo: “La fiducia è qualcosa che si deve meritare e si deve conquistare, alcune persone, prima di confidarsi, hanno voluto conoscermi”.



Il contesto storico e politico è noto: in quegli anni, i comunisti, i “rossi” delle varie organizzazioni extraparlamentari (ma non solo), definiti i “cinesi”, imperversano in tutta la città: tutte le strade e tutte le scuole e le università sono loro. Lo “spazio” a chi non sia comunista viene negato: con la violenza. In una piccola sede di corso Monforte della “Giovane Italia” (organizzazione vicina al M.S.I.), tra il 1967 e il 1968, nasce spontanea l’idea di sopravvivenza: la “difesa del territorio”. Idea che si afferma più che mai nel 1970, quando la sede viene chiusa e alcuni dei ragazzi decidono di fermarsi, a tutti i costi, nella “loro” Piazza. Impossibile ricostruire la storia di piazza San Babila e dei Sanbabilini: sono centinaia di racconti ed episodi… Impossibile anche perché le cronache dell’epoca erano talmente faziose o volutamente “offuscate” che nel rileggerle si riproporrebbe la falsità storica che ne era tipica.



L’Autore – pur avendo avuto, da giovanissimo, una breve esperienza in piazza San Babila – ha provato a essere obiettivo nella sua ricostruzione. Forse questo è stato il suo fallimento: la faziosità culturale di quegli anni non gli ha permesso di approfondire (nella prima parte del libro) la sua revisione storica come avrebbe desiderato. Nella seconda parte l’Autore ha dedicato dei “quadri” a singoli protagonisti di allora: alcuni famosi, altri sconosciuti, un Magistrato e anche un “avversario” (o meglio: un “nemico”)… Talvolta intervistandoli direttamente.



Nella nota introduttiva del libro di Arcidiacono si legge: “…si è letto e si leggerà la parola ‘Sanbabilini’ scritta con la lettera maiuscola, frutto della cultura e della sensibilità proprie dell’Autore che, laddove percepisce che un uomo combatte o ha combattuto col solo scopo di affermare la propria identità e irriducibilmente senza possibilità di vittoria, desidera affermare che costui meriti il rispetto di coloro che sanno ancora assaporare il gusto della Nobiltà Aristocratica.”.



Un forte elogio di quei ragazzi di allora, considerati, invece, il peggio del peggio, eppure, Pierluigi Arcidiacono ci tiene ad affermare che il suo “è un libro storico. Non politico. Sociologico e storico. Perché ho cercato di capire e ho cercato di raccontare. Tutto qui”.



“SANBABILINI – LETTURE, STORIE E RICORDI”, di Pierluigi Arcidiacono – (edizioni Settimo Sigillo – Collana Sangue & inchiostro – 480 pagine, inserto iconografico in bianco e nero di pagine XXXII.


La divulgazione delle opere riportate in questo articolo ha scopo esclusivamente cameratesco e pubblicitario. Per il loro acquisto si prega di contattare le rispettive Case Editrici.




SANBABILA ANNI 70, MILANO  - UN OMAGGIO





Sanbabilini davanti al bar Europa


Grazie Cesare, Gianni, Rodolfo, Maurizio, Vittorio, Antonio, John-John, Marco, Nico, Salvatore, Riccardo e... tanti altri





Grazie ai ragazzi di piazza San Babila che negli anni 70 lottarono con grande coraggio opponendosi con ogni mezzo e a qualunque costo alla dilagante e perversa dottrina marxista!

Grazie ai ragazzi di San Babila che  lottarono contro la società borghese- democristiana che permise  ai “compagni”  per oltre un decennio  di mettere a ferro e fuoco la città di Milano!


Grazie ai ragazzi di San Babila che mantennero accesa la Fiamma della Destra nelle scuole e nelle Università in balia delle orde rosse!

Grazie ai ragazzi di San Babila che contribuirono affinchè gli ideali della RSI, espressione più pura dell’essenza del Fascismo, non venissero dimenticati! 

Grazie ragazzi! Vivrete per sempre nei nostri ricordi e nei nostri cuori!

Andrea


SAN BABILA, LA VERA STORIA



Riporto questo splendido articolo di Marco Valle , apparso sul sito "Destra.it".

Lo dedico a tutti coloro che oggi denigrano e sottovalutano l'impegno, la determinazione e l'abnegazione di tutti noi Camerati di allora.


Andrea



San Babila, una storia di follie, amicizia e coraggio

di Marco Valle del 15 dicembre 2015


Piazza San Babila oggi per i milanesi è soltanto un punto d’incontro e di passaggio, uno slargo stradale. Per quelli della provincia e i turisti giapponesi, cinesi, arabi, russi etc. è poco più di un riferimento toponomastico e/o il crocevia dello shopping. Un nome, una tappa, un indirizzo. Nulla di più. Non hanno torto.

Milano è città intrigante, punteggiata da spazi deliziosi e segreti — spesso sconosciuti persino ai suoi stessi abitanti —, ma San Babila è e rimane semplicemente un incrocio di vie trafficate, con una chiesetta tardo romanica racchiusa tra palazzoni littori e edifici dei Sessanta (gli anni del boom). Tanto cemento armato, negozi, bar, una fontana che fa schifo (eredità del leghista Formentini), il parcheggio dei taxi e la metropolitana. In un angolo, un’antica colonna su cui s’innalza una scrofa, l’antico simbolo della Milano dei mercanti, il simbolo più autentico di una metropoli spesso cinica e ingorda.

San Babila non è piazza Duomo, non è piazza Sant’Alessandro (poesia barocca), o Belgioso o San Fedele; non è nemmeno Sant’Ambrogio, Sant’Eustorgio e San Sepolcro (dove tutto iniziò). San Babila non ha l’imponenza fascista di piazza della Repubblica (l’ex piazza Fiume) o la poesia medievale di piazza dei Mercanti e nemmeno la grazia umbertina di Cairoli e piazza Castello. San Babila è poca roba. Eppure questo slargo stradale, questo intreccio d’asfalto, questo “non luogo” è stato (incredibilmente) l’epicentro, il teatro e lo scenario di una vicenda crudele di un tempo sbagliato.Cattivo.

Torniamo all’indietro, ai Sessanta e Settanta dello scorso secolo. Per una serie di coincidenze irripetibili, la piazza divenne, per uno spezzone minoritario quanto stravagante della gioventù milanese, “il mondo”.

San Babila fu allora "agorà", palcoscenico, armeria e trincea. Tra le colonne grigie e le vetrine colorate, per una manciata d’anni (più o meno tra 1968 e il 1974), prese forma e sostanza un piccolo universo d’amicizie, ardore, amori, follie: i sanbabilini.


Una storia pesante e dura, sempre travisata, spesso misconosciuta. Gocce di poesia, tanto coraggio, molti sbagli e nessuna speranza. Una storia quasi impossibile da scrivere. Un rebus. Un corto circuito culturale.

Dopo più di quarant’anni, due protagonisti centrali di quell’esperienza, Maurizio Murelli e Cesare Ferri, hanno deciso finalmente di raccontarsi, di narrare le loro avventure giovanili (piccole vittorie e grandi sconfitte, amori effimeri e amicizie salde), rivelando al tempo stesso i loro incubi — la giovinezza perduta, i camerati caduti, le famiglie lacerate, la puzza delle celle, i tradimenti, e poi lo spaesamento della libertà ritrovata — con cui convivono da decenni.

Lo hanno fatto in modi e in stili diversi, ma con sentimenti forti e onesti, con scrittura limpida e sicura. Senza sconti, senza infingimenti, senza narcisismi. Con dignità. Nel segno della verità. La scrittura, a volte, è terapeutica.

Sul denso e importante romanzo di Maurizio (Indian Summer, edizioni AGA), torneremo prestissimo. Non a caso. Per capire e comprendere pienamente il lavoro murelliano è necessario, a nostro avviso, leggere con occhi acuti San Babila, la nostra trincea di Cesare Ferri. Un libro crudo, apparentemente facile e scorrevole, ma in realtà — il lettore avvertito lo comprende da subito — complesso e problematico.

Sullo sfondo di una città impazzita e di un paese sull’orlo di una guerra civile, l’autore racconta i percorsi esistenziali e politici di una manciata di ragazzi che decisero di trasformare la loro rivolta generazionale — il ’68 fu un fenomeno trasversale e potente che scosse in profondità l’intera società italiana — in un momento di opposizione totale, contrapponendosi non solo ai partiti governativi, alle regole del “sistema” ma anche e soprattutto alla deriva neo-marxista che tutto sembrava inghiottire e travolgere.

Una scelta minoritaria e, nell’immediato, assolutamente perdente. Nei nuovi assetti dell’Italia progressista e post-industriale, egualitarista e desovranizzata, non vi era posto per romantici sognatori di un improbabile “ordine nuovo”, non erano previsti giovani patrioti anticonformisti. Per i poteri forti, quelli veri, il “grande incendio” era un fenomeno passeggero e fastidioso ma, alla prova dei fatti, sinergico alla trasformazione neocapitalistica del paese, alla sua definitiva secolarizzazione e massificazione culturale. Presto o tardi gli incendiari maoisti, trotskisti, stalinisti e compagnia cantante sarebbero — come accadde — diventati pompieri e poi giornalisti, giudici, deputati, imprenditori, notai. Eugène Ionesco, vedendo nel “mai ’68″sfilare sui boulevards i figli della borghesia parigina,  aveva previsto ogni cosa….

Tutto questo i ragazzi di corso Monforte — la sede della Giovane Italia — non lo potevano sapere. Spiazzati da un partito contraddittorio e ondivago — il MSI sempre indeciso tra “ordine” e alternativa, tra entrismo e nostalgia — e incalzati dal successo della contestazione gauchista, i giovani militanti decisero di resistere e contrattaccare.

Una battaglia presto disperata — i rapporti di forza erano assolutamente sfavorevoli — e solitaria. Il partito, in una delle sue innumerevoli giravolte, chiuse Monforte, rinunciando così all’agibilità politica nel centro cittadino, e abbandonando, almeno ufficialmente, gli irriducibili alla loro sorte. Un errore clamoroso. Perso il “covo”, i ragazzi più decisi scelsero di restare nel cuore di Milano, trasformandolo in una trincea. San Babila, appunto.

Per Ferri e i suoi amici fu l’inizio di un “voyage au bout de la nuit”, ritmato da scontri sempre più violenti, feriti, spari, bombe e, poi, morti. Con elegante crudezza, lo scrittore racconta quell’anabasi impossibile, tratteggiando una Milano disperata e crudele, alternando atmosfere crepuscolari — così simili alle periferie di Sironi — a paesaggi umani che rimandano ai film di Sam Peckinpah. Come colonna sonora le canzoni di Fabrizio De Andrè, il cantante più amato dai sanbabilini.  Il tutto senza inutili compiacimenti, ommissioni, rancori e rimpianti.

Presto la situazione s’incupì, i legami umani si saldarono e la determinazione crebbe. In solitudine, come “fiumani” senza d’Annunzio, come “ronin” erranti, come “soldati perduti”, il piccolo gruppo — non più di una cinquantina di militanti e qualche centinaio di simpatizzanti — continuò cocciutamente a lottare in nome di una certa immagine del mondo, per quelle “idee senza parole” che, come avverte Oswald Spengler, “scorrono nel sangue”.

Certo, vi era un richiamo (contradditorio o/e sentimentale) al fascismo, talvolta si guardava verso un partito sempre più distante (e dopo la vergogna del 12 aprile 1973, ingrato e ostile), ma ciò che in piazza (la trincea)  contava sul serio, i sentimenti che univano e motivavano, erano l’amicizia, il cameratismo, l’orgoglio dei “pochi, felici pochi”.

Al netto degli infiltrati (una tassa obbligata per ogni spazio non conforme), dei carabinieri “camerati”, dei soliti cattivi maestri scappati “un attimo prima” in Spagna, in Grecia o chissà dove, dei sociopatici e dei matti veri, nella ventura di San Babila non vi fu spazio — ancora De Andrè — per gli «intellettuali d’oggi, per gli idioti di domani… per i profeti molto acrobati della rivoluzione». I ragazzi decisero di fare da soli. Senza lezioni. Senza chiedere sconti o pietà ad alcuno. Il disastro era inevitabile ma limpido. Pulito come le tombe e le sbarre del carcere.

L’esperienza  — quella reale, non quella immaginaria di millantatori e provocatori — si chiuse nel 1974 con l’arresto, l’esilio o la morte (Giancarlo Esposti, Gianni Nardi) dei principali esponenti. In quella primavera, con macabra precisione, scattò la grande trappola: a Brescia e a Bologna (il treno Italicus) due terribili esplosioni massacrarono decine di persone, e subito la magistratura, i carabinieri, i servizi segreti offrirono al pubblico i “colpevoli fascisti”, i mostri di San Babila. Una provocazione raffinata e complessa. Ferri non si rassegnò, seppur lontano scelse di tornare per sbugiardare gli inquirenti. Una scelta coraggiosa che pagò con una lunga detenzione, inquietanti tentativi d’assassinio e, infine, un’assoluzione piena sulla strage di Brescia.

Ne valeva la pena? Osservando, prima di costituirsi, la piazza ormai vuota, l’autore Cesare Ferri rifletteva «Se avessi fatto scelte diverse, se la mia stessa vita fosse stata diversa, non starei per andare in carcere, eppure non mi pento di niente, perché quello che ho fatto, quello che abbiamo fatto, è stato difendere un’idea. Ci siamo riusciti? Credo proprio di sì».

Marco Valle (Destra.it)



MONDO MODERNO E UOMINI DELLA TRADIZIONE


                                                               di Julius Evola

 

titolo: Mondo moderno e uomini della tradizione

autore/curatore: Julius Evola

fonte: Cavalcare la tigre

data di pubblicazione su juliusevola.it: 12/10/2004


  



"Il proposito è di studiare alcuni degli aspetti, per via dei quali l'epoca attuale si presenta essenzialmente come un'epoca di dissoluzione, affrontando in pari tempo il problema dei comportamenti e delle forme di esistenza che in una situazione siffatta si convengono ad un particolare tipo umano. Questa restrizione deve essere tenuta ben presente. Tutto ciò che diremo non riguarda un uomo qualsiasi dei nostri giorni. Abbiamo invece in vista, un uomo che, pur trovandosi impegnato nel mondo d'oggi, perfino là dove la vita moderna è in massimo grado problematica e parossistica, non appartiene interiormente a tale mondo nè intende cedere ad esso, e in essenza sente di essere di una razza diversa di quella della grandissima parte dei nostri contemporanei. Il posto naturale di quest'uomo, la terra in cui egli non sarebbe uno straniero, è il mondo della Tradizione.


 Tradizione: questa espressione qui è usata in significato specifico, da noi precisato in altre occasioni (Rivolta contro il mondo moderno), che diverge da quello comune, mentre si avvicina alle categorie usate da un Reneé Guénon nell'analisi della crisi del mondo moderno.


Secondo questa particolare accezione del termine, una civiltà o società è "tradizionale" quando è retta da principi trascendenti ciò che è soltanto umano ed individuale, quando ogni suo dominio è formato e ordinato dall'alto e verso l'alto.


Di là dalla varietà delle forme storiche, è esistita una essenziale identità o costanza nel mondo della Tradizione. Di esso altrove abbiamo cercato di precisare i valori e le categorie essenziali; questi costituiscono le basi per ogni civiltà, società e ordinamento dell'esistenza, da dirsi normale in un senso superiore, e retto da un vero significato.


Tutto ciò che è venuto a predominare nel mondo moderno rappresenta l'antitesi precisa di ogni tipo tradizionale di civiltà. E le circostanze stanno a mostrarci in modo sempre più evidente che partendo dai valori della Tradizione (ammesso anche che qualcuno sappia ancora riconoscerli e assumerli) è estremamente improbabile che si possa provocare una qualche modificazione di rilievo nello stato attuale generale delle cose, attraverso azioni o reazioni efficaci di un certo raggio.


 Dopo gli ultimi sconvolgimenti mondiali, a tanto oggi sembra mancare ogni punto di presa sia nelle nazioni che nella stragrande maggioranza degli individui, sia nelle istituzioni e nelle condizioni generali della società che nelle idee, negli interessi e nelle forze predominanti dell'epoca.


Purtuttavia esistono alcuni uomini che sono per così dire in piedi fra le rovine e fra la dissoluzione, i quali, più o meno consapevolmente, è a quell'altro mondo che appartengono. Una piccola schiera sembra disposta a battersi anche su posizioni perdute, e quando essa non fletta, quando non scenda a compromessi per la seduzione esercitata da tutto ciò che potrebbe condizionare un qualche loro successo, la sua testimonianza è valida.


Per altri, si tratta invece di isolarsi completamente, cosa che però richiede disposizioni interne a anche condizioni materiali privilegiate che ogni giorno si fanno sempre più rare. Comunque, è la seconda delle soluzioni possibili. Aggiungeremo i pochissimi che nel campo intellettuale possono ancora affermare i valori "tradizionali" al di fuori di ogni scopo immediato, tanto da svolgere un'"azione di presenza", azione certamente utile per impedire che la realtà attuale chiuda non solo materialmente ma anche idealmente ogni orizzonte e non lasci più scorgere nessuna misura diversa da quelle ad essa proprie.

Attraverso costoro, possono mantenersi delle distanze: altre dimensioni possibili, altri significati della vita, indicati a chi sia capace di distogliersi, di non guardare soltanto alle cose presenti e vicine. Ciò non risolve però il problema pratico personale, quando non si tratta di coloro cui è dato di isolarsi materialmente, ma di uomini che non possono o non vogliono tagliare i ponti con la vita attuale, che perciò si trovano dinanzi al problema dell'atteggiamento da prendere nell'esistenza, già in ordine a quanto si riferisce alle reazioni e alle relazioni umane più elementari. Ora, questo è appunto il tipo particolare di uomo che si ha in vista. Per lui vale il detto di un grande antesignano: "Il deserto cresce. Guai a colui che cela in sè il deserto!". Infatti, all'esterno egli non trova più alcun appoggio.


Gli ordinamenti e le istituzioni che in una civiltà e società tradizionali gli avrebbero permesso di realizzare se stesso integralmente, di organizzare in modo chiaro e univoco la propria esistenza, di difendere e di applicare nel proprio ambiente in modo creativo i valori principali da lui interiormente riconosciuti, sono inesistenti.


Così non è il caso di continuare a proporre a costui linee di azione che, adeguate e normative in ogni civiltà normale, tradizionale, non saprebbero più esserlo in una civiltà anormale, in un ambiente sociale, psichico, intellettuale e materiale del tutto diverso, in un clima di generale dissolvenza, nel regime di forme di un disordine malamente raffrenato e, comunque, prive di ogni superiore legittimità.


Da qui, i problemi specifici che intendiamo trattare in questa sede. In via preliminare, un punto importante da chiarire riguarda l'atteggiamento da assumere di fronte alle "sopravvivenze". Specie nell'aria occidentale europea sussistono consuetudini, istituti, forme del costume del mondo di ieri, cioè del mondo borghese, che dimostrano ancora una certa persistenza. Di fatto, quando oggi si parla di crisi, i più hanno in vista appunto il mondo borghese: sono le basi della civiltà e della società borghese a subire questa crisi, ad essere colpite dalla dissoluzione.


Non è il mondo che noi abbiamo chiamato della Tradizione. Socialmente, politicamente e culturalmente, sta sfasciandosi il sistema che aveva preso forma a partire dalla rivoluzione del Terzo Stato e dalla prima rivoluzione industriale, anche se ad esso erano spesso commisti alcuni resti di un ordine più antico, però ormai svigoriti nel loro contenuto vitale originario.


Che rapporto ha e può avere il tipo umano, che noi qui intendiamo prendere in considerazione, con tale mondo? Questa questione è essenziale, da essa dipendono evidentemente anche il senso da attribuirsi ai fenomeni di crisi e di dissoluzione oggi appariscenti e l'atteggiamento da assumere sia di fronte ad essi che a quanto da tali fenomeni non è stato ancora definitivamente minato o distrutto.


La risposta a detta questione non può essere che negativa. Il tipo umano che qui abbiamo in vista non ha nulla a che fare col mondo borghese. Egli deve considerare tutto ciò che è borghese come qualcosa di recente e di antitradizionale, di nato esso stesso da processi a carattere negativo e sovvertitore.

 In molti casi, nei fenomeni attuali di crisi va effettivamente vista una specie di nemesi o di azione di rimbalzo: son proprio le forze che a suo tempo furono messe in opera contro la precedente civiltà tradizionale europea a ritorcersi contro coloro che le avevano evocate, scalzandoli a loro volta e potando più oltre, verso una fase ulteriore più spinta, il processo di sgretolamento. Ad esempio, nel campo economico-sociale ciò appare in termini chiarissimi, per le evidenti relazioni che intercorrono fra la rivoluzione borghese del Terzo Stato e i successivi movimenti socialisti e marxisti, fra democrazia e liberalismo da un lato, socialismo dall'altro.


I primi hanno fatto semplici spianatori di via ai secondi, e questi in un secondo tempo, dopo aver lasciato che assolvessero tale funzione, mirano solo a eliminarli. Così stando le cose, una soluzione è senz'altro da scartare: quella di chi volesse appoggiarsi a quanto sopravvive del mondo borghese, difenderlo e servirsene come base contro le correnti più spinte della dissoluzione e del sovvertimento, eventualmente dopo aver cercato di animare o rafforzare questi resti con alcuni valori più alti, tradizionali.


 Anzitutto, considerando la situazione generale quale ogni giorno sempre più sin precisa dopo quegli avvenimenti cruciali, che sono stati le due ultime guerre mondiali e le loro ripercussioni, prendere un tale orientamento significherebbe illudersi, quanto alle possibilità materiali esistenti.

Le trasformazioni già avvenute sono troppo profonde per essere reversibili. le forze passate allo stato libero, o in via di passare allo stato libero, non sono tali da poter venire ricondotte entro le strutture del mondo di ieri. Inoltre, proprio per il fatto che solo a coteste strutture ci si sa riferire nei tentativi di reazione, ma che sono prive di ogni superiore legittimità, ha dato particolar vigore e mordente alle forze sovvvertitrici.


 D'altra parte, per tal via si andrebbe incontro ad un equivoco tanto inammissibile idealmente quanto pericoloso tatticamente. Come si è detto, i valori tradizionali - quelli che noi chiamiamo valori tradizionali - non sono i valori borghesi, sono all'antitesi dei valori borghesi. Così riconoscere una validità alle anzidette sopravvivenze, associarle in un qualsiasi modo ai valori tradizionali, avallarle con questi ultimi ai fini dinanzi accennati, significherebbe o dimostrare una scarsa comprensione per gli stessi valori tradizionali, oppure menomarli e scendere a forme deprecabili e rischiose di compromesso.

 Diciamo rischiose, perché col collegare come che sia le idee tradizionali con le forme residuali della civiltà borghese le si esporrebbe all'attacco, sotto vari riguardi inevitabile, legittimo e necessario, mosso dall'epoca contro questa civiltà. E' verso l'opposta soluzione che è dunque d'uopo orientarsi, anche se con ciò le cose si faranno assai più difficili e si andrà incontro ad un'altra specie di rischio.


 E' bene recidere ogni legame con tutto ciò che, a più o meno breve scadenza, è destinato a finire. Il problema sarà, allora, di mantenere una direzione essenziale senza appoggiarsi a nessuna forma data o tramandata, includendo in esse anche forme autenticamente tradizionali, ma storiche, del passato.


A tale riguardo la continuità non potrà essere mantenuta che su di un piano, per così dire, essenziale, appunto come un intimo orientamento dell'essere, presso alla massima libertà esterna. L'appoggio che potrà continuare a dare la Tradizione non si riferisce alle strutture positive, regolari e riconosciute di una qualche civiltà già da essa formata, ma soprattutto a quella dottrina che, per così dire, ne conteneva i principi allo stato preformale superiore e anteriore alle particolari formulazioni storiche e che nel passato non era di pertinenza delle masse, ma aveva il carattere in una "dottrina interna".


 Per il resto, data l'impossibilità di agire positivamente nel senso di un ritorno reale e generale al sistema normale, tradizionale, data l'impossibilità di formare organicamente e unitariamente tutta la propria esistenza nel clima della società , della cultura e del costume moderni, resta da vedere in che termini si possano accettare in pieno situazioni di dissoluzione senza esserne toccati interiormente. In più, si potrà considerare ciò che nell'attuale fase può venir scelto, separato dal resto e assunto come forma libera di un comportamento che, esteriormente, non sia "anacronistico", che sappia anzi misurarsi con quanto nel campo del pensiero e del modo di vivere contemporaneo vi è di più spinto, ma restando all'interno, determinato e comandato da uno spirito completamente diverso. La formula: "Portarsi non là dove ci si difende, ma là dove si attacca", che qualcuno ha proposto, potrà venire adottata dal gruppo degli uomini differenziati, epigoni della Tradizione, su cui qui verte il discorso. Potrebbe , cioè, essere persino opportuno contribuire a quel che già vacilla ed appartiene al mondo di ieri, cada, anziché cercare di puntellarlo e di prolungarvi artificialmente l'esistenza.


E' una tattica possibile, utile ad impedire che la crisi finale sia l'opera delle forze opposte e che di esse si abbia a subire l'iniziativa. Il rischio di un simile comportamento è evidentissimo: non è detto chi avrà l'ultima parola. Ma non vi è nulla, nell'epoca attuale, che non sia rischioso. Per chi si tiene in piedi, questo è forse l'unico vantaggio che essa presenta.

Le idee fondamentali da raccogliere da quanto si è detto fin qui, si possono dunque riassumere nel modo seguente. Il significato della crisi e delle dissoluzioni, oggi da tanti deprecate, deve essere preciso indicando l'oggetto reale e diretto dei processi distruttivi: la civiltà e la società borghese. Misurate con i valori tradizionali, queste hanno però già avuto il senso di una prima negazione di un mondo a loro anteriore e superiore. Ne segue che la crisi del mondo moderno potrebbe eventualmente rappresentare, hegelianamente, una "negazione della negazione", epperò significare, per un lato, un fenomeno a suo modo positivo.


L'alternativa è che questa "negazione della negazione" sbocchi nel nulla - nel nulla che prorompe da forme molteplici del caos, della disperazione, della ribellione e della "contestazione" caratterizzanti non poche correnti delle ultime generazioni, o in quell'altro nulla che mal si cela dietro il sistema organizzato della civiltà materiale - ovvero che essa, per gli uomini qui in discorso, crei un nuovo spazio libero, il quale potrebbe eventualmente essere la premessa per una successiva azione formatrice.




LA SOLITUDINE SIDERALE DI JULIUS EVOLA CHE SFIDA I SECOLI


Il lungo cammino attraverso Dada, esoterismo, Tradizione di un filosofo incompreso e rifiutato. Oggi come allora - Marcello Veneziani  - Lun, 31/03/2014 - 09:37  il Giornale.it




Evola - Anni 70



Così Julius Evola (1898-1974), descrive nella sua autobiografia la solitudine siderale del suo cammino. Mezzo secolo fa Evola scese dal cavallo altero dell'impersonalità e si raccontò in un'autobiografia intellettuale che intitolò con spirito alchemico Il cammino del cinabro.

Ora, a quarant'anni dalla sua morte, il testo rivede la luce nelle Opere di Evola (Mediterranee, pagg. 438, euro 32,50), curate da Gianfranco de Turris, aiutato da Giovanni Sessa e Andrea Scarabelli, arricchito di note, notizie e altri scritti. La prefazione è di Geminello Alvi. Curioso l'inserto fotografico con immagini di Evola mai viste, per esempio da bambino coi suoi genitori.



Evola racconta la sua vita attraverso le sue opere e i suoi snodi fondamentali: l'esperienza della Grande Guerra, poi il periodo di pittore Dada, quindi la fase filosofica, poi il suo percorso esoterico, infine il suo cammino nella Tradizione. E sullo sfondo, i suoi rapporti con gli artisti e gli iniziati, gli scrittori e i filosofi del suo tempo, le trasgressioni, il controverso rapporto col fascismo tra sostegno e dissenso, superfascismo e antifascismo, e poi con i giovani della destra postbellica. C'è anche il capitolo scabroso del razzismo.

Evola fu teorico di un razzismo spirituale che non piacque ai razzisti doc e ai nazisti ma gli restò addosso come il suo peccato originale. Non c'è in lui odio antisemita né alcun fanatismo, c'è perfino una dignitosa coerenza, riconobbe Renzo De Felice. Ma Evola prescinde totalmente dai fatti e dalla tragedia dello sterminio e si attesta solo sui principi; ciò infonde un tono astratto alle farneticazioni della razza, qui ridotte peraltro da lui a «una parentesi» nella sua vita e nella sua opera. Evola confessa di aver rasentato da giovane «l'area delle allucinazioni visionarie e fors'anche della pazzia» e «una specie di cupio dissolvi, un impulso a disperdersi e a perdersi».



Nelle pagine del Cinabro, a fianco del pensiero e delle opere, scorre la vita, la storia - arricchita dalle note dei curatori gli ambienti a lui vicini e a lui avversi, le note ostili della questura ai tempi del fascismo, perfino la vicenda di un duello rifiutato da Evola per non abbassarsi al rango dello sfidante che però gli costò la rimozione del grado di ufficiale e gli impedì di partire volontario nella seconda guerra mondiale. Ci sono gli scontri con alcuni fascisti, c'è la sua fama di mago e c'è perfino l'accenno di Evola al Mussolini superstizioso: «Aveva un'autentica paura per gli iettatori di cui vietava che si pronunciasse il nome in suo cospetto». C'è la storia assurda del processo nel dopoguerra a un gruppo di giovani neofascisti in cui fu coinvolto un Evola del tutto ignaro e ormai paralizzato, vittima di un bombardamento a Vienna. C'è la cronaca della sua morte, l'11 giugno di 40 anni fa, quando si fece portare davanti alla finestra e morì in piedi, guardando al Gianicolo; e poi i funerali con la sua bara senza croce e senza corteo funebre, secondo le sue volontà, e le sue ceneri disperse tra le cime delle Alpi, che aveva amato e scalato.



Evola fu un mito già da vivente, avvolto in un alone di magia. In queste pagine aleggia un paradosso: un pensatore isolato e in disparte che incrocia nella sua vita e nella sua opera, gli autori, le correnti, gli eventi più salienti del Novecento.

A questo paradosso ne corrisponde uno inverso sul piano del pensiero: Evola, fautore della Tradizione e del Sacro, fonda la sua opera su un Individualismo Trascendentale, non solo teorico e psichico ma pratico e magico. Per Evola la verità è solo «un riflesso della potenza: la verità è un errore potente, l'errore è una verità debole». Un relativismo imperniato sulla potenza, che ne decide il rango e il valore. «Essere, verità, certezza non stanno dietro ma avanti, sono dei compiti», non dei fondamenti.



Grandiosi piani metastorici in nome della Tradizione, templi sacri, civiltà millenarie dell'Essere ma in piedi resta solo la solitudine stellare dell'Io. Solipsismo eroico. «Debbo pochissimo all'ambiente, all'educazione, alla linea del mio sangue scrive Evola, sottolineando la sua estraneità alla tradizione cristiana, famigliare e patriottica il mio impulso alla trascendenza è centrato sull'affermazione libera dell'Io».

Anzi, avverte Evola, «non vi è avvenimento rilevante dell'esistenza che non sia stato da noi stessi voluto in sede prenatale». Siamo quasi all'autocreazione, al self made man metafisico. Resta sospesa nei cieli la domanda che qui si pone Evola: «Che cosa può venire dopo il nichilismo europeo?... Dove si può trovare un appoggio, un senso dell'esistenza, senza tornare indietro?». Evola rispose che l'unica soluzione era «essere se stessi, seguire solo la propria legge, facendone un assoluto». Ma non è proprio questa incondizionata libertà la punta più avanzata del nichilismo europeo, non è di questo individualismo assoluto che sta morendo la nostra civiltà? E se fosse l'Individuo Assoluto l'ostacolo estremo alla rivelazione dell'Essere?



Un titanico e aristocratico disdegno del mondo accompagna il racconto biografico di Evola. Ma ogni tanto si apre uno squarcio nel suo severo stile impersonale. Ad esempio quando riporta in queste pagine i giudizi lusinghieri sulle sue opere. Fa tenerezza notare che per lenire il suo isolamento Evola citi queste sporadiche e spesso modeste attenzioni alla sua opera. O quando sfugge al suo stoicismo imperturbabile qualche umana amarezza per il mancato riconoscimento del suo pensiero: «La grande stampa e la cultura ufficiale rimasero, e anche in seguito dovevano rimanere, sorde». Lo stesso Cammino del Cinabro, confessa nella nota d'esordio, fu scritto «nell'eventualità che un giorno l'opera da me svolta in otto lustri sia fatta oggetto di un'attenzione diversa da quella che finora le è stata concessa». Altri otto lustri sono passati dalla sua morte ma non sembrano bastati. La solitudine di Evola sfida i secoli.




                                                             JULIUS EVOLA




Evola - Anni 70




 Giulio Cesare Andrea Evola, meglio conosciuto come Julius Evola (Roma, 19 maggio 1898 – Roma, 11 giugno 1974), è stato un filosofo, pittore, poeta, scrittore ed esoterista italiano. Fu personalità poliedrica nel panorama culturale italiano del Novecento, in ragione dei suoi molteplici interessi: arte, filosofia, storia, politica, esoterismo, religione, costume, studi sulla razza.


Le sue posizioni si inquadrano nell'ambito di una cultura di tipo aristocratico-tradizionale e di tendenze ideologiche in parte presenti nel fascismo e nel nazionalsocialismo, pur esprimendosi spesso in chiave critica nei confronti dei due regimi. Mussolini ne apprezza alcune impostazioni: in particolare il ritorno alla romanità e una teoria della razza in chiave spirituale. Da parte sua il filosofo nutre una pacata ammirazione nei confronti del Duce.


Evola ha una sua influenza, anche se difficilmente quantificabile, nel variegato mondo della cultura fascista: con lo scopo di indirizzarne l'impostazione culturale ed ideologica verso posizioni più affini al suo pensiero, scrive numerosi saggi, collabora intensamente con riviste e giornali di grande tiratura e partecipa alla vita accademica del suo tempo in veste di conferenziere, sia presso alcune prestigiose università italiane e straniere che nell'ambito dei corsi di mistica fascista.


Ma è lo stesso Evola, nel primo numero della rivista da lui diretta, La Torre, quando espone il suo pensiero sul mondo della tradizione, a sintetizzare la sua posizione verso il fascismo: «Nella misura che il fascismo segua e difenda tali principi, in questa stessa misura noi possiamo considerarci fascisti. E questo è tutto». C'è anche chi ritiene che in sede diplomatica Evola svolga missioni ad altissimi livelli per conto dello stesso governo italiano.


Nonostante ciò, le sue idee eterodosse non sempre sono ben accette dalla classe dirigente italiana del tempo e gli valgono la sospensione di alcune pubblicazioni da parte dello stesso PNF e in Germania il sospetto delle gerarchie naziste. Evola contribuisce alla divulgazione in Italia di importanti autori europei del XIX e del XX secolo: Bachofen, Guénon, Jünger, Ortega y Gasset, Spengler, Weininger, traducendo alcune loro opere e pubblicando saggi critici.


La complessità del suo pensiero gli procura, anche dopo la fine della guerra, un grande seguito negli ambienti conservatori italiani ed europei, da quelli più tradizionalisti del neofascismo (Pino Rauti ed Enzo Erra del Centro Studi Ordine Nuovo) fino a quelli rappresentati da esponenti della destra più moderata (Giano Accame, Marcello Veneziani). Le sue opere vengono tradotte e pubblicate in Germania, Francia, Spagna, Portogallo, Belgio, Grecia, Svizzera, Gran Bretagna, Russia, Stati Uniti, Messico, Canada, Romania, Argentina, Brasile, Ungheria, Polonia, Turchia.





JULIUS EVOLA - CITAZIONI





“Vivi come se tu dovessi morire subito. Pensa come se tu non dovessi morire mai. [Questa frase viene erroneamente attribuita a diversi personaggi, tra cui Moana Pozzi o Giorgio Almirante, tuttavia si tratta di una frase originale di Julius Evola]„




“Ognuno ha la libertà che gli spetta, misurata dalla statura e dalla dignità della sua persona.„




“La vita deve esser volontà diretta da un pensiero.„



“Portarsi non là dove ci si difende, ma là dove si attacca.„



“Si lascino pure gli uomini del tempo nostro parlare, con maggiore o minore sufficienza e improntitudine, di anacronismo e di antistoria. [...] Li si lascino alle loro "verità" e ad un'unica cosa si badi: a tenersi in piedi in un mondo di rovine. [...] Rendere ben visibili i valori della verità, della realtà e della Tradizione a chi, oggi, non vuole il "questo" e cerca confusamente "l'altro" significa dare sostegni a che non in tutti la grande tentazione prevalga, là dove la materia sembra essere ormai più forte dello spirito.“



“Un artigiano che assolve perfettamente alla sua funzione è indubbiamente superiore ad un re che scarti e non sia all'altezza della sua dignità.„



“Nell'idea va riconosciuta la nostra vera patria. Non l'essere di una stessa terra o di una stessa lingua, ma l'essere della stessa idea è quel che oggi conta.„



“È importante, è essenziale, che si costituisca una élite la quale, in una raccolta intensità, definisca secondo un rigore intellettuale ed un'assoluta intransigenza l'idea, in funzione della quale si deve essere uniti, ed affermi questa idea soprattutto nella forma dell'uomo nuovo, dell'uomo della resistenza, dell'uomo dritto fra le rovine. Se sarà dato andar oltre questo periodo di crisi e di ordine vacillante e illusorio, solo a quest'uomo spetterà il futuro. Ma quand'anche il destino che il mondo moderno si è creato, e che ora sta travolgendolo, non dovesse esser contenuto, presso a tali premesse le posizioni interne saranno mantenute: in qualsiasi evenienza ciò che potrà esser fatto sarà fatto e apparterremo a quella patria, che da nessun nemico potrà mai essere né occupata né distrutta. „



“Un uomo che, semi-illetterato, ha vivo il sentimento di onore e di fedeltà, per noi vale di più di un accademico laureato narcisista pronto ad ogni cortigianeria pur di farsi avanti o di uno scienziato vigliacco: e, più in alto di tutto, stanno per noi i valori eroici ed ascetici, unici a giustificare la vita con qualcosa, che è più che vita.”




“Conta solo il silenzioso tener fermo di pochi, la cui presenza impassibile da convitati di pietra serva a creare nuovi rapporti, nuove distanze, nuovi valori; a costruire un polo il quale, se di certo non impedirà a questo mondo di deviati di essere quello che è, varrà però a trasmettere a qualcuno la sensazione della verità-sensazione, che potrà fors'anche essere principio invisibile di qualche crisi liberatrice.”









Makarska - Croazia 2015



Un omaggio alla città dove risiedo ormai da moltissimi anni
















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