SAN BABILA, FASCISTI, POESIA E VECCHI CAMERATI
Sanbabilini a San Babila, Camerati, Fascisti, anni 70 Milano: BAR EUROPA - AL CENTRO CON LA CAMICIA BIANCA RODOLFO CROVACE - Ricordi dei nostri vent'anni.
1968-2018 50 anni – Il 68 fu anche “nostro”, ma i revisionisti del doppiopetto non ci capirono proprio niente di niente…Pazzesco!
Riporto un post ricevuto alcuni anni fa da un caríssimo amico e camerata e che solo oggi mi sono deciso a pubblicare
Salve a tutti !
Comprendere oggi cosa rappresentò per noi questa piazza di Milano negli anni settanta è piuttosto arduo.
L’impegno politico che coinvolse tutta quella nostra generazione non trova riscontro nei giovani d'oggi.
Furono anni di militanza a tempo pieno, di sofferenze e di violenza in cui tutti noi eravamo impegnati in una incessante lotta politica e fisica che ci unì creando legami indissolubili di fratellanza che il tempo non è mai riuscito a cancellare.
Di quella nostra mitica piazza vorrei così ricordare due carissimi amici e Camerati.
Il primo che ha scritto questa poesia dedicata ai Fratelli che hanno vissuto l'esperienza di San Babila.
Il secondo, amico indimenticabile ormai da anni in Sud America.
Grazie Cesare della poesia , della tua amicizia e della tua Fratellanza!
Ciao "John John", campione, anche tu “adesso così lontano” ma per sempre con noi!!!.
Andrea
Cesare Ferri
SAN BABILA
poesia di Cesare Ferri
Di quegli incontri serali
con cari amici,
adesso così lontani
o già morti,
ricordo ancora la brezza
che mi pungeva la pelle
e il terso cielo primaverile
sopra la nostra grande piazza
ormai vuota.
Giocavamo col tempo accanto alle colonne
aspettando la notte
e poi l’alba,
facendoci beffe del sonno più intenso.
Dove sono ora i vivi e i morti?
Si era giovani, come nessuno lo è mai stato,
ma ci sentivamo anche tanto vecchi
da essere addirittura stanchi
della nostra grande piazza.
E non soltanto di quella.
Eravamo in pochi? In molti?
Che importanza ha,
eravamo noi,
così puliti, così pazzi,
così spaventosamente ingenui.
I portici sono ancora lì a ricordarmi,
ogni volta che passo,
i miei felici vent’anni
e i cari amici di allora,
adesso così lontani
o già morti,
ma sempre vivi,
nella mia memoria,
insieme a quelle chiare sere di marzo.
da: Divagazioni di un annoiato
(Cesare Ferri)
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Milano, San Babila, anni '70: militanti della "destra radicale". Nella storica foto si riconoscono da sinistra: Mario Marino, Gianni Ferorelli, un detenuto comune, "Mammarosa" Rodolfo Crovace e Maurizio Murelli (arrestato assieme a Vittorio Loi figlio del pugile per l’uccisione dell’agente Antonio Marino il 12/04/1973).
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QUANDO SAN BABILA ERA LA TRINCEA CONTRO I COMUNISTI
Avevo 14 anni quando due amici, che allora si chiamavano «camerati», mi portarono in San Babila, in mezzo a tanti ragazzi più grandi che l’avevano trasformata nella trincea del neofascismo milanese.
Ricordo i bar che non ci sono più (i Quattro Mori) e quelli che hanno cambiato nome (Borgogna, Pedrinis, Donini) e l’idealismo mischiato alla violenza, il coraggio all’incoscienza, la protervia alla generosità di quelli che ho conosciuto bene e di quelli che ho solo incrociato.
Parecchi di loro non sono arrivati agli anni Ottanta. Alcuni (con le armi in pugno) ci hanno lasciato la pelle difendendo un’idea o buttando la propria vita. Retorica? Chiedetelo a chi li ha vissuti quegli anni, quando chi era di destra usciva di casa senza sapere se sarebbe rientrato.
Allora San Babila divenne un territorio da difendere strategicamente, nato dai fuoriusciti dalla Giovine Italia di Corso Monforte 13.
Contro il luogo comune che vuole i sanbabilini tutti fighetti e figli di papà si incrociavano così il mitico immigrato Mammarosa, concentrato di forza bruta e di sanguigna umanità che menava come un fabbro, e coloro che avrebbero fatto dell’etica e della politica una ragione di vita.
C’erano le Barrow's e i RayBan ma anche Nietzsche ed Evola. Un mondo folle in cui si sovrapponevano diverse «San Babila», quella dei ragazzi per bene che bevevano il the al Motta e quella di chi ha fatto la cronaca e la storia.
«Dopo gli arresti per gli incidenti del 12 aprile ‘73 e per la strage di Brescia - mi ricorda Maurizio Murelli, oggi promotore dell’Editrice Barbarossa e della rivista Orion - la nostra San Babila è morta».
Eppure in quegli anni si respirava un clima naïf. «Come la sinistra ha rotto il cliché del comunista stalinista, noi abbiamo superato quello del vecchio fascista inventando un nuovo futurismo» chiosa Murelli.
Cesare Ferri - protagonista di quegli anni, oggi scrittore - ha descritto quei giorni nel romanzo Una sera d’inverno e dice: «Volevamo che la società bacchettona cambiasse e non cadesse in mani comuniste.
Dal canto loro i rossi ragionavano in modo uguale e contrario. Si scontravano due visioni del mondo». Di quel periodo mi sono rimaste amicizie profonde e sincere, che hanno superato la prova del tempo e che si nutrono di cose semplici. Per questo mi chiedo: a cosa serva riappropriarsi di San Babila?.
«San Babila è qualcosa di più che una piazza dove mettere un gazebo - mi dice Ferri -, è un lungo elenco di nomi e dietro ci sono storie di ragazzi uccisi o con la vita disintegrata dalla repressione.
Tutti dimenticati, vivi e morti. Manifestino pure, ma sappiano che chi allora c’era davvero, considera questo un riconoscimento tardivo. Lo dico senza risentimento ma, casomai, con un po’ di tristezza».
(Antonio Lodetti - Il Giornale)
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Camerati – Milano - Corso Monforte 1970
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INDIAN SUMMER 70 - C'ERA UNA VOLTA SAN BABILA
Maurizio Murelli
Editore: AGA (Cusano Milanino)
Anno edizione: 2015
Pagine: 400 p., Brossura
San Babila, anni '70: in questa piazza al centro di Milano un gruppo di amici accomunati dalla passione politica trascorre una parte della giovinezza in un turbinìo di avventure sospese fra militanza estrema e spensierata goliardia. Quarant'anni dopo, uno straordinario concatenarsi di drammatici eventi li porta a ritrovarsi e a rinnovare il vincolo dell'antico cameratismo: l'autunno della loro esistenza sboccia imprevisto e il gruppo vivrà in pienezza una travolgente Indian Summer. Il romanzo a cui Maurizio Murelli lavorava da anni... finalmente vede la luce. La voce di un protagonista diretto, il racconto di un'e'poca di sogni e ideali, di visioni lontane.... Dei protagonisti di "quei tempi", ben pochi hanno mantenuto gli stessi ideali e le stesse "visioni". Maurizio è uno di questi. Vivamente consigliato dallo staff di casualnonconforme.
CESARE FERRI – I RAGAZZI DI SAN BABILA
Cesare Ferri - San Babila La nostra trincea - Edizioni Settimo Sigillo - Euro 25.
Antonio Lodetti per “il Giornale”
«Qui non ci sono suggerimenti né politici né ideologici perché altro era il mio scopo: raccontare la storia dei ragazzi di San Babila, tra i quali c'ero anch' io, che hanno combattuto per un ideale». Questa è la frase centrale della prefazione di Cesare Ferri al suo romanzo storico-autobiografico San Babila. La nostra trincea
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Cesare Ferri
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Finalmente, un vero spaccato, senza voli pindarici e millanterie, su quello che fece il neofascismo milanese (si noti che Ferri non scrive mai «sanbabilini», termine coniato dai media, ma sempre «fascisti») negli anni '70.
Ferri e i suoi camerati non volevano essere travolti dall' ondata rossa che partendo dalla Statale aveva sconvolto Milano. Da qui nasce il racconto di una gioventù ribelle e violenta unita da un fedele attaccamento all' idea di fascismo.
Ferri racconta le sue battaglie in piazza insieme a Giancarlo Esposti (poi morto nel noto conflitto a fuoco coi carabinieri a Pian del Rascino), con Gianni Nardi, con il «mazziere» Mammarosa e con tanti personaggi ormai morti e dimenticati come Riccardo Manfredi e Marco Petriccione...
Racconta dei suoi coltelli, delle sue pistole, dei suoi attentati prima con le SAM (Squadre Azione Mussolini) poi con Ordine Nero, del rapporto fedele e sincero (al limite del fanatismo) che lo legava ai camerati nelle varie azioni.
Sembra un mondo lontano anni luce, ma a quei tempi se si aveva la «colpa» di portare le scarpe Barrows o i RayBan calati sul naso, si rischiava di farsi spaccare la testa a colpi di spranga o di «Hazet 36», quindi i ragazzi di San Babila - che erano in netta minoranza rispetto ai rossi - hanno deciso di difendersi con la violenza. E fu una sorta di guerra civile...
COMMENTO DI PIGI ARCIDIACONO
Perché sia importante il romanzo di Cesare Ferri: “SAN BABILA - La nostra trincea” (che toccherà leggere e incrociare con il primo tomo di Maurizio Murelli) ce lo spiega un altro scrittore che di quella comunità ha fatto parte, Pigi Arcidiacono.
- In primis, Ferri è bravo Autore: ha pubblicato molti romanzi e scritto testi teatrali: scrivere è il suo “mestiere”, non è un improvvisato al quale a un certo punto sovviene il desio di narrare le sue storie di gioventù.
Ferri è uomo di Filosofia raffinata, cosa importante nel mantenere vivo il realismo dei “personaggi” seppur insegnando qualcosa che nella mediocrità quotidiana dei più può sfuggire.
Cesare Ferri, “Cesarino” per alcuni, piazza San Babila l’ha vissuta davvero (dall’inizio alla fine): era poco più di un ragazzino quando frequentava la sede della “Giovane Italia” in corso Monforte (nel 1968) ed è rimasto lì, sotto ai portici, sino (praticamente) alla fine della “vera” San Babila, nel 1973/1974.
- Ferri è stato vittima di una repressione insensata e accusato ingiustamente a tal punto che a un certo momento qualcuno ha pensato (giustamente) che dovesse essere risarcito.
- Cesare ha nel cuore i ragazzi di allora. Tutti. Quelli che sono ancora vivi e quelli che non ci sono più. Li ha nel cuore davvero.
- Il libro di Ferri (pur essendo un romanzo) è un importante strumento storico. Non fa parte di quel “revisionismo di parte” (anche se potrebbe apparire così), ma di quella “lettura” storiografica sopita e “repressa” dai poteri forti che, come si dice, “essendo vincenti, la storia la scrivono”...
- Ferri ha meditato a lungo questo scritto. Chi lo conosce sa che era contrario a narrare le storie di San Babila, forte di quella saggezza che è virtù e riconosce quando sia giusto parlare e quando sia giusto tacere.
- In ultimo... Ferri è mio amico (quindi fidatevi).
“SANBABILINI” – Un bellissimo libro di Pierluigi Arcidiacono. Vale la pena leggerlo. Grazie Pigi!!!
UNA PIAZZA COME ROCCAFORTE: UN LIBRO RACCONTA LA STORIA DEI “SANBABILINI”
Pierluigi Arcidiacono
di Roberto Derta - 6 dicembre 2017
Roma, 6 dic – Raggiunge finalmente le librerie Sanbabilini, il saggio storico di Pierluigi Arcidiacono che narra le vicende dei giovani fascisti milanesi che della piazza più centrale di Milano – piazza San Babila – fecero la propria “roccaforte” alla fine degli Anni Sessanta e negli Anni Settanta. Il volume era atteso da tempo (più di due anni), ma l’Autore ha voluto lasciare la precedenza a due protagonisti di quelle vicende e ai loro libri: “Indian Summer ’70 – C’era una volta San Babila” (A.G.A. – 2015), di Maurizio Murelli; e San Babila – La nostra trincea”, di Cesare Ferri, edito nel 2016 dallo stesso Editore di Arcidiacono (edizioni Settimo Sigillo). Inoltre, come spiega lo stesso Autore per spiegare il ritardo: “La fiducia è qualcosa che si deve meritare e si deve conquistare, alcune persone, prima di confidarsi, hanno voluto conoscermi”.
Il contesto storico e politico è noto: in quegli anni, i comunisti, i “rossi” delle varie organizzazioni extraparlamentari (ma non solo), definiti i “cinesi”, imperversano in tutta la città: tutte le strade e tutte le scuole e le università sono loro. Lo “spazio” a chi non sia comunista viene negato: con la violenza. In una piccola sede di corso Monforte della “Giovane Italia” (organizzazione vicina al M.S.I.), tra il 1967 e il 1968, nasce spontanea l’idea di sopravvivenza: la “difesa del territorio”. Idea che si afferma più che mai nel 1970, quando la sede viene chiusa e alcuni dei ragazzi decidono di fermarsi, a tutti i costi, nella “loro” Piazza. Impossibile ricostruire la storia di piazza San Babila e dei Sanbabilini: sono centinaia di racconti ed episodi… Impossibile anche perché le cronache dell’epoca erano talmente faziose o volutamente “offuscate” che nel rileggerle si riproporrebbe la falsità storica che ne era tipica.
L’Autore – pur avendo avuto, da giovanissimo, una breve esperienza in piazza San Babila – ha provato a essere obiettivo nella sua ricostruzione. Forse questo è stato il suo fallimento: la faziosità culturale di quegli anni non gli ha permesso di approfondire (nella prima parte del libro) la sua revisione storica come avrebbe desiderato. Nella seconda parte l’Autore ha dedicato dei “quadri” a singoli protagonisti di allora: alcuni famosi, altri sconosciuti, un Magistrato e anche un “avversario” (o meglio: un “nemico”)… Talvolta intervistandoli direttamente.
Nella nota introduttiva del libro di Arcidiacono si legge: “…si è letto e si leggerà la parola ‘Sanbabilini’ scritta con la lettera maiuscola, frutto della cultura e della sensibilità proprie dell’Autore che, laddove percepisce che un uomo combatte o ha combattuto col solo scopo di affermare la propria identità e irriducibilmente senza possibilità di vittoria, desidera affermare che costui meriti il rispetto di coloro che sanno ancora assaporare il gusto della Nobiltà Aristocratica.”.
Un forte elogio di quei ragazzi di allora, considerati, invece, il peggio del peggio, eppure, Pierluigi Arcidiacono ci tiene ad affermare che il suo “è un libro storico. Non politico. Sociologico e storico. Perché ho cercato di capire e ho cercato di raccontare. Tutto qui”.
“SANBABILINI – LETTURE, STORIE E RICORDI”, di Pierluigi Arcidiacono – (edizioni Settimo Sigillo – Collana Sangue & inchiostro – 480 pagine, inserto iconografico in bianco e nero di pagine XXXII, € 36,00).
La divulgazione delle opere riportate in questo articolo ha scopo esclusivamente cameratesco e pubblicitario. Per il loro acquisto si prega di contattare le rispettive Case Editrici.
SANBABILA ANNI 70, MILANO - UN OMAGGIO
Sanbabilini davanti al bar Europa
Grazie Cesare, Gianni, Rodolfo, Maurizio, Vittorio, Antonio, John-John, Marco, Nico, Salvatore, Riccardo e... tanti altri
Grazie ai ragazzi di piazza San Babila
che negli anni 70 lottarono con grande coraggio opponendosi
con ogni mezzo e a qualunque costo alla dilagante e perversa dottrina marxista!
Grazie ai ragazzi
di San Babila che lottarono contro la società borghese-
democristiana che permise ai “compagni” per oltre un decennio di mettere a ferro e
fuoco la città di Milano!
Grazie ai ragazzi
di San Babila che mantennero accesa la Fiamma della Destra nelle scuole e nelle
Università in balia delle orde rosse!
Grazie ai ragazzi
di San Babila che contribuirono affinchè gli ideali della RSI, espressione più
pura dell’essenza del Fascismo, non venissero dimenticati!
Grazie ragazzi!
Vivrete per sempre nei nostri ricordi e nei nostri cuori!
Andrea
SAN BABILA, LA VERA STORIA
Riporto questo splendido articolo di Marco Valle , apparso sul sito "Destra.it".
Lo dedico a tutti coloro che oggi denigrano e sottovalutano l'impegno, la determinazione e l'abnegazione di tutti noi Camerati di allora.
Andrea
San Babila, una storia di follie, amicizia e
coraggio
di Marco Valle
del 15 dicembre 2015
Piazza San Babila
oggi per i milanesi è soltanto un punto d’incontro e di passaggio, uno slargo
stradale. Per quelli della provincia e i turisti giapponesi, cinesi, arabi,
russi etc. è poco più di un riferimento toponomastico e/o il crocevia dello
shopping. Un nome, una tappa, un indirizzo. Nulla di più. Non hanno torto.
Milano è città
intrigante, punteggiata da spazi deliziosi e segreti — spesso sconosciuti
persino ai suoi stessi abitanti —, ma San Babila è e rimane semplicemente un
incrocio di vie trafficate, con una chiesetta tardo romanica racchiusa tra
palazzoni littori e edifici dei Sessanta (gli anni del boom). Tanto cemento
armato, negozi, bar, una fontana che fa schifo (eredità del leghista
Formentini), il parcheggio dei taxi e la metropolitana. In un angolo, un’antica
colonna su cui s’innalza una scrofa, l’antico simbolo della Milano dei
mercanti, il simbolo più autentico di una metropoli spesso cinica e ingorda.
San Babila non è
piazza Duomo, non è piazza Sant’Alessandro (poesia barocca), o Belgioso o San
Fedele; non è nemmeno Sant’Ambrogio, Sant’Eustorgio e San Sepolcro (dove tutto
iniziò). San Babila non ha l’imponenza fascista di piazza della Repubblica (l’ex
piazza Fiume) o la poesia medievale di piazza dei Mercanti e nemmeno la grazia
umbertina di Cairoli e piazza Castello. San Babila è poca roba. Eppure questo
slargo stradale, questo intreccio d’asfalto, questo “non luogo” è stato
(incredibilmente) l’epicentro, il teatro e lo scenario di una vicenda crudele
di un tempo sbagliato. Cattivo.
Torniano
all’indietro, ai Sessanta e Settanta dello scorso secolo. Per una serie di
coincidenze irripetibili, la piazza divenne, per uno spezzone minoritario
quanto stravagante della gioventù milanese, “il mondo”.
San Babila fu allora
"agorà", palcoscenico, armeria e trincea. Tra le colonne grigie e le vetrine
colorate, per una manciata d’anni (più o meno tra 1968 e il 1974), prese forma
e sostanza un piccolo universo d’amicizie, ardore, amori, follie: i
sanbabilini.
Una storia
pesante e dura, sempre travisata, spesso misconosciuta. Gocce di poesia, tanto
coraggio, molti sbagli e nessuna speranza. Una storia quasi impossibile da
scrivere. Un rebus. Un corto circuito culturale.
Dopo più di
quarant’anni, due protagonisti centrali di quell’esperienza, Maurizio Murelli e
Cesare Ferri, hanno deciso finalmente di raccontarsi, di narrare le loro
avventure giovanili (piccole vittorie e grandi sconfitte, amori effimeri e
amicizie salde), rivelando al tempo stesso i loro incubi — la giovinezza
perduta, i camerati caduti, le famiglie lacerate, la puzza delle celle, i
tradimenti, e poi lo spaesamento della libertà ritrovata — con cui convivono da
decenni.
Lo hanno fatto in modi e in stili diversi, ma con sentimenti forti e
onesti, con scrittura limpida e sicura. Senza sconti, senza infingimenti, senza
narcisismi. Con dignità. Nel segno della verità. La scrittura, a volte, è
terapeutica.
Sul denso e
importante romanzo di Maurizio (Indian Summer, edizioni AGA), torneremo
prestissimo. Non a caso. Per capire e comprendere pienamente il lavoro
murelliano è necessario, a nostro avviso, leggere con occhi acuti San
Babila, la nostra trincea di Cesare Ferri. Un libro crudo, apparentemente
facile e scorrevole, ma in realtà — il lettore avvertito lo comprende da subito
— complesso e problematico.
Sullo sfondo di
una città impazzita e di un paese sull’orlo di una guerra civile, l’autore
racconta i percorsi esistenziali e politici di una manciata di ragazzi che
decisero di trasformare la loro rivolta generazionale — il ’68 fu un fenomeno
trasversale e potente che scosse in profondità l’intera società italiana — in
un momento di opposizione totale, contrapponendosi non solo ai partiti
governativi, alle regole del “sistema” ma anche e soprattutto alla deriva
neo-marxista che tutto sembrava inghiottire e travolgere.
Una scelta
minoritaria e, nell’immediato, assolutamente perdente. Nei nuovi assetti
dell’Italia progressista e post-industriale, egualitarista e desovranizzata,
non vi era posto per romantici sognatori di un improbabile “ordine nuovo”, non
erano previsti giovani patrioti anticonformisti. Per i poteri forti, quelli
veri, il “grande incendio” era un fenomeno passeggero e fastidioso ma, alla
prova dei fatti, sinergico alla trasformazione neocapitalistica del paese, alla
sua definitiva secolarizzazione e massificazione culturale. Presto o tardi gli
incendiari maoisti, trotskisti, stalinisti e compagnia cantante sarebbero —
come accadde — diventati pompieri e poi giornalisti, giudici, deputati,
imprenditori, notai. Eugène Ionesco, vedendo nel “mai ’68″sfilare sui
boulevards i figli della borghesia parigina, aveva previsto ogni cosa….
Tutto questo i
ragazzi di corso Monforte — la sede della Giovane Italia — non lo potevano
sapere. Spiazzati da un partito contraddittorio e ondivago — il MSI sempre
indeciso tra “ordine” e alternativa, tra entrismo e nostalgia — e incalzati dal
successo della contestazione gauchista, i giovani militanti decisero di
resistere e contrattaccare. Una battaglia presto disperata — i rapporti di
forza erano assolutamente sfavorevoli — e solitaria. Il partito, in una delle
sue innumerevoli giravolte, chiuse Monforte, rinunciando così all’agibilità
politica nel centro cittadino, e abbandonando, almeno ufficialmente, gli
irriducibili alla loro sorte. Un errore clamoroso. Perso il “covo”, i ragazzi
più decisi scelsero di restare nel cuore di Milano, trasformandolo in una
trincea. San Babila, appunto.
Per Ferri e i
suoi amici fu l’inizio di un “voyage au bout de la nuit”, ritmato da scontri
sempre più violenti, feriti, spari, bombe e, poi, morti. Con elegante crudezza,
lo scrittore racconta quell’anabasi impossibile, tratteggiando una Milano
disperata e crudele, alternando atmosfere crepuscolari — così simili alle
periferie di Sironi — a paesaggi umani che rimandano ai film di Sam Peckinpah.
Come colonna sonora le canzoni di Fabrizio De Andrè, il cantante più amato dai
sanbabilini. Il tutto senza inutili compiacimenti, ommissioni, rancori e rimpianti.
Presto la
situazione s’incupì, i legami umani si saldarono e la determinazione crebbe. In
solitudine, come “fiumani” senza d’Annunzio, come “ronin” erranti, come
“soldati perduti”, il piccolo gruppo — non più di una cinquantina di militanti
e qualche centinaio di simpatizzanti — continuò cocciutamente a lottare in nome
di una certa immagine del mondo, per quelle “idee senza parole” che, come
avverte Oswald Spengler, “scorrono nel sangue”.
Certo, vi
era un richiamo (contradditorio o/e sentimentale) al fascismo, talvolta si
guardava verso un partito sempre più distante (e dopo la vergogna del 12 aprile
1973, ingrato e ostile), ma ciò che in piazza (la trincea) contava sul
serio, i sentimenti che univano e motivavano, erano l’amicizia, il
cameratismo, l’orgoglio dei “pochi, felici pochi”.
Al netto degli
infiltrati (una tassa obbligata per ogni spazio non conforme), dei carabinieri
“camerati”, dei soliti cattivi maestri scappati “un attimo prima” in Spagna, in
Grecia o chissà dove, dei sociopatici e dei matti veri, nella ventura di San
Babila non vi fu spazio — ancora De Andrè — per gli «intellettuali d’oggi, per
gli idioti di domani… per i profeti molto acrobati della rivoluzione». I
ragazzi decisero di fare da soli. Senza lezioni. Senza chiedere sconti o pietà
ad alcuno. Il disastro era inevitabile ma limpido. Pulito come le tombe e le
sbarre del carcere.
L’esperienza
— quella reale, non quella immaginaria di millantatori e provocatori — si
chiuse nel 1974 con l’arresto, l’esilio o la morte (Giancarlo Esposti, Gianni
Nardi) dei principali esponenti. In quella primavera, con macabra precisione,
scattò la grande trappola: a Brescia e a Bologna (il treno Italicus) due
terribili esplosioni massacrarono decine di persone, e subito la magistratura,
i carabinieri, i servizi segreti offrirono al pubblico i “colpevoli fascisti”,
i mostri di San Babila. Una provocazione raffinata e complessa. Ferri non si
rassegnò, seppur lontano scelse di tornare per sbugiardare gli inquirenti. Una
scelta coraggiosa che pagò con una lunga detenzione, inquietanti tentativi
d’assassinio e, infine, un’assoluzione piena sulla strage di Brescia.
Ne valeva la pena?
Osservando, prima di costituirsi, la piazza ormai vuota, l’autore Cesare Ferri rifletteva
«Se avessi fatto scelte diverse, se la mia stessa vita fosse stata diversa, non
starei per andare in carcere, eppure non mi pento di niente, perché quello che
ho fatto, quello che abbiamo fatto, è stato difendere un’idea. Ci siamo riusciti? Credo proprio di sì».
Marco Valle (Destra.it)
MONDO MODERNO E UOMINI DELLA TRADIZIONE
di Julius Evola
titolo: Mondo moderno e uomini della tradizione
autore/curatore: Julius Evola
fonte: Cavalcare
la tigre
data di pubblicazione su juliusevola.it:
12/10/2004
"Il
proposito è di studiare alcuni degli aspetti, per via dei quali l'epoca attuale
si presenta essenzialmente come un'epoca di dissoluzione, affrontando in pari
tempo il problema dei comportamenti e delle forme di esistenza che in una
situazione siffatta si convengono ad un particolare tipo umano. Questa
restrizione deve essere tenuta ben presente. Tutto ciò che diremo non riguarda
un uomo qualsiasi dei nostri giorni. Abbiamo invece in vista, un uomo che, pur
trovandosi impegnato nel mondo d'oggi, perfino là dove la vita moderna è in
massimo grado problematica e parossistica, non appartiene interiormente a tale
mondo nè intende cedere ad esso, e in essenza sente di essere di una razza
diversa di quella della grandissima parte dei nostri contemporanei. Il posto
naturale di quest'uomo, la terra in cui egli non sarebbe uno straniero, è il
mondo della Tradizione.
Tradizione: questa espressione qui è usata in
significato specifico, da noi precisato in altre occasioni (Rivolta contro il
mondo moderno), che diverge da quello comune, mentre si avvicina alle categorie
usate da un Reneé Guénon nell'analisi della crisi del mondo moderno.
Secondo questa
particolare accezione del termine, una civiltà o società è
"tradizionale" quando è retta da principi trascendenti ciò che è
soltanto umano ed individuale, quando ogni suo dominio è formato e ordinato
dall'alto e verso l'alto.
Di là dalla
varietà delle forme storiche, è esistita una essenziale identità o costanza nel
mondo della Tradizione. Di esso altrove abbiamo cercato di precisare i valori e
le categorie essenziali; questi costituiscono le basi per ogni civiltà, società
e ordinamento dell'esistenza, da dirsi normale in un senso superiore, e retto
da un vero significato.
Tutto ciò che è
venuto a predominare nel mondo moderno rappresenta l'antitesi precisa di ogni
tipo tradizionale di civiltà. E le circostanze stanno a mostrarci in modo
sempre più evidente che partendo dai valori della Tradizione (ammesso anche che
qualcuno sappia ancora riconoscerli e assumerli) è estremamente improbabile che
si possa provocare una qualche modificazione di rilievo nello stato attuale
generale delle cose, attraverso azioni o reazioni efficaci di un certo raggio.
Dopo gli ultimi sconvolgimenti mondiali, a
tanto oggi sembra mancare ogni punto di presa sia nelle nazioni che nella
stragrande maggioranza degli individui, sia nelle istituzioni e nelle
condizioni generali della società che nelle idee, negli interessi e nelle forze
predominanti dell'epoca.
Purtuttavia
esistono alcuni uomini che sono per così dire in piedi fra le rovine e fra la
dissoluzione, i quali, più o meno consapevolmente, è a quell'altro mondo che
appartengono. Una piccola schiera sembra disposta a battersi anche su posizioni
perdute, e quando essa non fletta, quando non scenda a compromessi per la
seduzione esercitata da tutto ciò che potrebbe condizionare un qualche loro
successo, la sua testimonianza è valida.
Per altri, si
tratta invece di isolarsi completamente, cosa che però richiede disposizioni
interne a anche condizioni materiali privilegiate che ogni giorno si fanno
sempre più rare. Comunque, è la seconda delle soluzioni possibili. Aggiungeremo
i pochissimi che nel campo intellettuale possono ancora affermare i valori
"tradizionali" al di fuori di ogni scopo immediato, tanto da svolgere
un'"azione di presenza", azione certamente utile per impedire che la
realtà attuale chiuda non solo materialmente ma anche idealmente ogni orizzonte
e non lasci più scorgere nessuna misura diversa da quelle ad essa proprie.
Attraverso costoro,
possono mantenersi delle distanze: altre dimensioni possibili, altri
significati della vita, indicati a chi sia capace di distogliersi, di non
guardare soltanto alle cose presenti e vicine. Ciò non risolve però il problema
pratico personale, quando non si tratta di coloro cui è dato di isolarsi
materialmente, ma di uomini che non possono o non vogliono tagliare i ponti con
la vita attuale, che perciò si trovano dinanzi al problema dell'atteggiamento
da prendere nell'esistenza, già in ordine a quanto si riferisce alle reazioni e
alle relazioni umane più elementari. Ora, questo è appunto il tipo particolare
di uomo che si ha in vista. Per lui vale il detto di un grande antesignano:
"Il deserto cresce. Guai a colui che cela in sè il deserto!".
Infatti, all'esterno egli non trova più alcun appoggio.
Gli ordinamenti e
le istituzioni che in una civiltà e società tradizionali gli avrebbero permesso
di realizzare se stesso integralmente, di organizzare in modo chiaro e univoco
la propria esistenza, di difendere e di applicare nel proprio ambiente in modo
creativo i valori principali da lui interiormente riconosciuti, sono
inesistenti.
Così non è il
caso di continuare a proporre a costui linee di azione che, adeguate e
normative in ogni civiltà normale, tradizionale, non saprebbero più esserlo in
una civiltà anormale, in un ambiente sociale, psichico, intellettuale e
materiale del tutto diverso, in un clima di generale dissolvenza, nel regime di
forme di un disordine malamente raffrenato e, comunque, prive di ogni superiore
legittimità.
Da qui, i
problemi specifici che intendiamo trattare in questa sede. In via preliminare,
un punto importante da chiarire riguarda l'atteggiamento da assumere di fronte
alle "sopravvivenze". Specie nell'aria occidentale europea sussistono
consuetudini, istituti, forme del costume del mondo di ieri, cioè del mondo
borghese, che dimostrano ancora una certa persistenza. Di fatto, quando oggi si
parla di crisi, i più hanno in vista appunto il mondo borghese: sono le basi
della civiltà e della società borghese a subire questa crisi, ad essere colpite
dalla dissoluzione. Non è il mondo che noi abbiamo chiamato della Tradizione.
Socialmente, politicamente e culturalmente, sta sfasciandosi il sistema che
aveva preso forma a partire dalla rivoluzione del Terzo Stato e dalla prima
rivoluzione industriale, anche se ad esso erano spesso commisti alcuni resti di
un ordine più antico, però ormai svigoriti nel loro contenuto vitale
originario.
Che rapporto ha e
può avere il tipo umano, che noi qui intendiamo prendere in considerazione, con
tale mondo? Questa questione è essenziale, da essa dipendono evidentemente
anche il senso da attribuirsi ai fenomeni di crisi e di dissoluzione oggi
appariscenti e l'atteggiamento da assumere sia di fronte ad essi che a quanto
da tali fenomeni non è stato ancora definitivamente minato o distrutto. La
risposta a detta questione non può essere che negativa. Il tipo umano che qui
abbiamo in vista non ha nulla a che fare col mondo borghese. Egli deve
considerare tutto ciò che è borghese come qualcosa di recente e di
antitradizionale, di nato esso stesso da processi a carattere negativo e
sovvertitore.
In molti casi, nei fenomeni attuali di crisi
va effettivamente vista una specie di nemesi o di azione di rimbalzo: son proprio
le forze che a suo tempo furono messe in opera contro la precedente civiltà
tradizionale europea a ritorcersi contro coloro che le avevano evocate,
scalzandoli a loro volta e potando più oltre, verso una fase ulteriore più
spinta, il processo di sgretolamento. Ad esempio, nel campo economico-sociale
ciò appare in termini chiarissimi, per le evidenti relazioni che intercorrono
fra la rivoluzione borghese del Terzo Stato e i successivi movimenti socialisti
e marxisti, fra democrazia e liberalismo da un lato, socialismo dall'altro.
I primi hanno
fatto semplici spianatori di via ai secondi, e questi in un secondo tempo, dopo
aver lasciato che assolvessero tale funzione, mirano solo a eliminarli. Così
stando le cose, una soluzione è senz'altro da scartare: quella di chi volesse
appoggiarsi a quanto sopravvive del mondo borghese, difenderlo e servirsene
come base contro le correnti più spinte della dissoluzione e del sovvertimento,
eventualmente dopo aver cercato di animare o rafforzare questi resti con alcuni
valori più alti, tradizionali.
Anzitutto, considerando la situazione generale
quale ogni giorno sempre più sin precisa dopo quegli avvenimenti cruciali, che
sono stati le due ultime guerre mondiali e le loro ripercussioni, prendere un
tale orientamento significherebbe illudersi, quanto alle possibilità materiali
esistenti.
Le trasformazioni
già avvenute sono troppo profonde per essere reversibili. le forze passate allo
stato libero, o in via di passare allo stato libero, non sono tali da poter
venire ricondotte entro le strutture del mondo di ieri. Inoltre, proprio per il
fatto che solo a coteste strutture ci si sa riferire nei tentativi di reazione,
ma che sono prive di ogni superiore legittimità, ha dato particolar vigore e
mordente alle forze sovvvertitrici.
D'altra parte, per tal via si andrebbe
incontro ad un equivoco tanto inammissibile idealmente quanto pericoloso
tatticamente. Come si è detto, i valori tradizionali - quelli che noi chiamiamo
valori tradizionali - non sono i valori borghesi, sono all'antitesi dei valori
borghesi. Così riconoscere una validità alle anzidette sopravvivenze,
associarle in un qualsiasi modo ai valori tradizionali, avallarle con questi
ultimi ai fini dinanzi accennati, significherebbe o dimostrare una scarsa
comprensione per gli stessi valori tradizionali, oppure menomarli e scendere a
forme deprecabili e rischiose di compromesso.
Diciamo rischiose, perché col collegare come
che sia le idee tradizionali con le forme residuali della civiltà borghese le
si esporrebbe all'attacco, sotto vari riguardi inevitabile, legittimo e
necessario, mosso dall'epoca contro questa civiltà. E' verso l'opposta
soluzione che è dunque d'uopo orientarsi, anche se con ciò le cose si faranno
assai più difficili e si andrà incontro ad un'altra specie di rischio.
E' bene recidere ogni legame con tutto ciò
che, a più o meno breve scadenza, è destinato a finire. Il problema sarà,
allora, di mantenere una direzione essenziale senza appoggiarsi a nessuna forma
data o tramandata, includendo in esse anche forme autenticamente tradizionali,
ma storiche, del passato.
A tale riguardo
la continuità non potrà essere mantenuta che su di un piano, per così dire,
essenziale, appunto come un intimo orientamento dell'essere, presso alla
massima libertà esterna. L'appoggio che potrà continuare a dare la Tradizione
non si riferisce alle strutture positive, regolari e riconosciute di una
qualche civiltà già da essa formata, ma soprattutto a quella dottrina che, per
così dire, ne conteneva i principi allo stato preformale superiore e anteriore
alle particolari formulazioni storiche e che nel passato non era di pertinenza
delle masse, ma aveva il carattere in una "dottrina interna".
Per il resto, data l'impossibilità di agire
positivamente nel senso di un ritorno reale e generale al sistema normale,
tradizionale, data l'impossibilità di formare organicamente e unitariamente
tutta la propria esistenza nel clima della società , della cultura e del
costume moderni, resta da vedere in che termini si possano accettare in pieno situazioni
di dissoluzione senza esserne toccati interiormente. In più, si potrà
considerare ciò che nell'attuale fase può venir scelto, separato dal resto e
assunto come forma libera di un comportamento che, esteriormente, non sia
"anacronistico", che sappia anzi misurarsi con quanto nel campo del
pensiero e del modo di vivere contemporaneo vi è di più spinto, ma restando
all'interno, determinato e comandato da uno spirito completamente diverso. La
formula: "Portarsi non là dove ci si difende, ma là dove si attacca",
che qualcuno ha proposto, potrà venire adottata dal gruppo degli uomini
differenziati, epigoni della Tradizione, su cui qui verte il discorso. Potrebbe
, cioè, essere persino opportuno contribuire a quel che già vacilla ed
appartiene al mondo di ieri, cada, anziché cercare di puntellarlo e di
prolungarvi artificialmente l'esistenza.
E' una tattica
possibile, utile ad impedire che la crisi finale sia l'opera delle forze
opposte e che di esse si abbia a subire l'iniziativa. Il rischio di un simile comportamento
è evidentissimo: non è detto chi avrà l'ultima parola. Ma non vi è nulla,
nell'epoca attuale, che non sia rischioso. Per chi si tiene in piedi, questo è
forse l'unico vantaggio che essa presenta.
Le idee
fondamentali da raccogliere da quanto si è detto fin qui, si possono dunque
riassumere nel modo seguente. Il significato della crisi e delle dissoluzioni,
oggi da tanti deprecate, deve essere preciso indicando l'oggetto reale e
diretto dei processi distruttivi: la civiltà e la società borghese. Misurate
con i valori tradizionali, queste hanno però già avuto il senso di una prima
negazione di un mondo a loro anteriore e superiore. Ne segue che la crisi del
mondo moderno potrebbe eventualmente rappresentare, hegelianamente, una
"negazione della negazione", epperò significare, per un lato, un
fenomeno a suo modo positivo.
L'alternativa è
che questa "negazione della negazione" sbocchi nel nulla - nel nulla
che prorompe da forme molteplici del caos, della disperazione, della ribellione
e della "contestazione" caratterizzanti non poche correnti delle
ultime generazioni, o in quell'altro nulla che mal si cela dietro il sistema
organizzato della civiltà materiale - ovvero che essa, per gli uomini qui in
discorso, crei un nuovo spazio libero, il quale potrebbe eventualmente essere
la premessa per una successiva azione formatrice.
LA SOLITUDINE SIDERALE DI JULIUS EVOLA CHE SFIDA I
SECOLI
Il lungo cammino
attraverso Dada, esoterismo, Tradizione di un filosofo incompreso e rifiutato.
Oggi come allora - Marcello
Veneziani - Lun, 31/03/2014 - 09:37 il Giornale.it
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Evola - Anni 70 |
Così Julius Evola (1898-1974), descrive nella sua autobiografia la solitudine siderale del suo cammino. Mezzo secolo fa Evola scese dal cavallo altero dell'impersonalità e si raccontò in un'autobiografia intellettuale che intitolò con spirito alchemico Il cammino del cinabro. Ora, a quarant'anni dalla sua morte, il testo rivede la luce nelle Opere di Evola (Mediterranee, pagg. 438, euro 32,50), curate da Gianfranco de Turris, aiutato da Giovanni Sessa e Andrea Scarabelli, arricchito di note, notizie e altri scritti. La prefazione è di Geminello Alvi. Curioso l'inserto fotografico con immagini di Evola mai viste, per esempio da bambino coi suoi genitori.
Evola racconta la sua vita attraverso le sue opere e i suoi snodi fondamentali: l'esperienza della Grande Guerra, poi il periodo di pittore Dada, quindi la fase filosofica, poi il suo percorso esoterico, infine il suo cammino nella Tradizione. E sullo sfondo, i suoi rapporti con gli artisti e gli iniziati, gli scrittori e i filosofi del suo tempo, le trasgressioni, il controverso rapporto col fascismo tra sostegno e dissenso, superfascismo e antifascismo, e poi con i giovani della destra postbellica. C'è anche il capitolo scabroso del razzismo. Evola fu teorico di un razzismo spirituale che non piacque ai razzisti doc e ai nazisti ma gli restò addosso come il suo peccato originale. Non c'è in lui odio antisemita né alcun fanatismo, c'è perfino una dignitosa coerenza, riconobbe Renzo De Felice. Ma Evola prescinde totalmente dai fatti e dalla tragedia dello sterminio e si attesta solo sui principi; ciò infonde un tono astratto alle farneticazioni della razza, qui ridotte peraltro da lui a «una parentesi» nella sua vita e nella sua opera. Evola confessa di aver rasentato da giovane «l'area delle allucinazioni visionarie e fors'anche della pazzia» e «una specie di cupio dissolvi, un impulso a disperdersi e a perdersi».
Nelle pagine del Cinabro, a fianco del pensiero e delle opere, scorre la vita, la storia - arricchita dalle note dei curatori gli ambienti a lui vicini e a lui avversi, le note ostili della questura ai tempi del fascismo, perfino la vicenda di un duello rifiutato da Evola per non abbassarsi al rango dello sfidante che però gli costò la rimozione del grado di ufficiale e gli impedì di partire volontario nella seconda guerra mondiale. Ci sono gli scontri con alcuni fascisti, c'è la sua fama di mago e c'è perfino l'accenno di Evola al Mussolini superstizioso: «Aveva un'autentica paura per gli iettatori di cui vietava che si pronunciasse il nome in suo cospetto». C'è la storia assurda del processo nel dopoguerra a un gruppo di giovani neofascisti in cui fu coinvolto un Evola del tutto ignaro e ormai paralizzato, vittima di un bombardamento a Vienna. C'è la cronaca della sua morte, l'11 giugno di 40 anni fa, quando si fece portare davanti alla finestra e morì in piedi, guardando al Gianicolo; e poi i funerali con la sua bara senza croce e senza corteo funebre, secondo le sue volontà, e le sue ceneri disperse tra le cime delle Alpi, che aveva amato e scalato.
Evola fu un mito già da vivente, avvolto in un alone di magia. In queste pagine aleggia un paradosso: un pensatore isolato e in disparte che incrocia nella sua vita e nella sua opera, gli autori, le correnti, gli eventi più salienti del Novecento.
A questo paradosso ne corrisponde uno inverso sul piano del pensiero: Evola, fautore della Tradizione e del Sacro, fonda la sua opera su un Individualismo Trascendentale, non solo teorico e psichico ma pratico e magico. Per Evola la verità è solo «un riflesso della potenza: la verità è un errore potente, l'errore è una verità debole». Un relativismo imperniato sulla potenza, che ne decide il rango e il valore. «Essere, verità, certezza non stanno dietro ma avanti, sono dei compiti», non dei fondamenti.
Grandiosi piani metastorici in nome della Tradizione, templi sacri, civiltà millenarie dell'Essere ma in piedi resta solo la solitudine stellare dell'Io. Solipsismo eroico. «Debbo pochissimo all'ambiente, all'educazione, alla linea del mio sangue scrive Evola, sottolineando la sua estraneità alla tradizione cristiana, famigliare e patriottica il mio impulso alla trascendenza è centrato sull'affermazione libera dell'Io».
Anzi, avverte Evola, «non vi è avvenimento rilevante dell'esistenza che non sia stato da noi stessi voluto in sede prenatale». Siamo quasi all'autocreazione, al self made man metafisico. Resta sospesa nei cieli la domanda che qui si pone Evola: «Che cosa può venire dopo il nichilismo europeo?... Dove si può trovare un appoggio, un senso dell'esistenza, senza tornare indietro?». Evola rispose che l'unica soluzione era «essere se stessi, seguire solo la propria legge, facendone un assoluto». Ma non è proprio questa incondizionata libertà la punta più avanzata del nichilismo europeo, non è di questo individualismo assoluto che sta morendo la nostra civiltà? E se fosse l'Individuo Assoluto l'ostacolo estremo alla rivelazione dell'Essere?
Un titanico e aristocratico disdegno del mondo accompagna il racconto biografico di Evola. Ma ogni tanto si apre uno squarcio nel suo severo stile impersonale. Ad esempio quando riporta in queste pagine i giudizi lusinghieri sulle sue opere. Fa tenerezza notare che per lenire il suo isolamento Evola citi queste sporadiche e spesso modeste attenzioni alla sua opera. O quando sfugge al suo stoicismo imperturbabile qualche umana amarezza per il mancato riconoscimento del suo pensiero: «La grande stampa e la cultura ufficiale rimasero, e anche in seguito dovevano rimanere, sorde». Lo stesso Cammino del Cinabro, confessa nella nota d'esordio, fu scritto «nell'eventualità che un giorno l'opera da me svolta in otto lustri sia fatta oggetto di un'attenzione diversa da quella che finora le è stata concessa». Altri otto lustri sono passati dalla sua morte ma non sembrano bastati. La solitudine di Evola sfida i secoli.
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Evola - Anni 70 |
Giulio Cesare
Andrea Evola, meglio conosciuto come Julius Evola (Roma, 19 maggio 1898 – Roma,
11 giugno 1974), è stato un filosofo, pittore, poeta, scrittore ed esoterista
italiano. Fu personalità poliedrica nel panorama culturale italiano del
Novecento, in ragione dei suoi molteplici interessi: arte, filosofia, storia,
politica, esoterismo, religione, costume, studi sulla razza.
Le sue posizioni
si inquadrano nell'ambito di una cultura di tipo aristocratico-tradizionale e
di tendenze ideologiche in parte presenti nel fascismo e nel
nazionalsocialismo, pur esprimendosi spesso in chiave critica nei confronti dei
due regimi. Mussolini ne apprezza alcune impostazioni: in particolare il
ritorno alla romanità e una teoria della razza in chiave spirituale. Da parte
sua il filosofo nutre una pacata ammirazione nei confronti del Duce.
Evola ha una sua
influenza, anche se difficilmente quantificabile, nel variegato mondo della
cultura fascista: con lo scopo di indirizzarne l'impostazione culturale ed
ideologica verso posizioni più affini al suo pensiero, scrive numerosi saggi,
collabora intensamente con riviste e giornali di grande tiratura e partecipa
alla vita accademica del suo tempo in veste di conferenziere, sia presso alcune
prestigiose università italiane e straniere che nell'ambito dei corsi di
mistica fascista.
Ma è lo stesso
Evola, nel primo numero della rivista da lui diretta, La Torre, quando espone
il suo pensiero sul mondo della tradizione, a sintetizzare la sua posizione
verso il fascismo: «Nella misura che il fascismo segua e difenda tali principi,
in questa stessa misura noi possiamo considerarci fascisti. E questo è tutto». C'è
anche chi ritiene che in sede diplomatica Evola svolga missioni ad altissimi
livelli per conto dello stesso governo italiano.
Nonostante ciò,
le sue idee eterodosse non sempre sono ben accette dalla classe dirigente italiana
del tempo e gli valgono la sospensione di alcune pubblicazioni da parte dello
stesso PNF e in Germania il sospetto delle gerarchie naziste. Evola
contribuisce alla divulgazione in Italia di importanti autori europei del XIX e
del XX secolo: Bachofen, Guénon, Jünger, Ortega y Gasset, Spengler, Weininger,
traducendo alcune loro opere e pubblicando saggi critici.
La complessità
del suo pensiero gli procura, anche dopo la fine della guerra, un grande
seguito negli ambienti conservatori italiani ed europei, da quelli più
tradizionalisti del neofascismo (Pino Rauti ed Enzo Erra del Centro Studi
Ordine Nuovo) fino a quelli rappresentati da esponenti della destra più
moderata (Giano Accame, Marcello Veneziani). Le sue opere vengono tradotte e
pubblicate in Germania, Francia, Spagna, Portogallo, Belgio, Grecia, Svizzera,
Gran Bretagna, Russia, Stati Uniti, Messico, Canada, Romania, Argentina,
Brasile, Ungheria, Polonia, Turchia.
“Vivi come se tu
dovessi morire subito. Pensa come se tu non dovessi morire mai. [Questa frase
viene erroneamente attribuita a diversi personaggi, tra cui Moana Pozzi o
Giorgio Almirante, tuttavia si tratta di una frase originale di Julius Evola]„
“Ognuno ha la
libertà che gli spetta, misurata dalla statura e dalla dignità della sua
persona.„
“La vita deve
esser volontà diretta da un pensiero.„
“Portarsi non là
dove ci si difende, ma là dove si attacca.„
“Si lascino pure
gli uomini del tempo nostro parlare, con maggiore o minore sufficienza e
improntitudine, di anacronismo e di antistoria. [...] Li si lascino alle loro
"verità" e ad un'unica cosa si badi: a tenersi in piedi in un mondo
di rovine. [...] Rendere ben visibili i valori della verità, della realtà e
della Tradizione a chi, oggi, non vuole il "questo" e cerca
confusamente "l'altro" significa dare sostegni a che non in tutti la
grande tentazione prevalga, là dove la materia sembra essere ormai più forte
dello spirito.“
“Un artigiano che
assolve perfettamente alla sua funzione è indubbiamente superiore ad un re che
scarti e non sia all'altezza della sua dignità.„
“Nell'idea va
riconosciuta la nostra vera patria. Non l'essere di una stessa terra o di una
stessa lingua, ma l'essere della stessa idea è quel che oggi conta.„
“È importante, è
essenziale, che si costituisca una élite la quale, in una raccolta intensità,
definisca secondo un rigore intellettuale ed un'assoluta intransigenza l'idea,
in funzione della quale si deve essere uniti, ed affermi questa idea
soprattutto nella forma dell'uomo nuovo, dell'uomo della resistenza, dell'uomo
dritto fra le rovine. Se sarà dato andar oltre questo periodo di crisi e di
ordine vacillante e illusorio, solo a quest'uomo spetterà il futuro. Ma
quand'anche il destino che il mondo moderno si è creato, e che ora sta
travolgendolo, non dovesse esser contenuto, presso a tali premesse le posizioni
interne saranno mantenute: in qualsiasi evenienza ciò che potrà esser fatto
sarà fatto e apparterremo a quella patria, che da nessun nemico potrà mai
essere né occupata né distrutta. „
“Un uomo che,
semi-illetterato, ha vivo il sentimento di onore e di fedeltà, per noi vale di
più di un accademico laureato narcisista pronto ad ogni cortigianeria pur di
farsi avanti o di uno scienziato vigliacco: e, più in alto di tutto, stanno per
noi i valori eroici ed ascetici, unici a giustificare la vita con qualcosa, che
è più che vita.”
“Conta solo il
silenzioso tener fermo di pochi, la cui presenza impassibile da convitati di
pietra serva a creare nuovi rapporti, nuove distanze, nuovi valori; a costruire
un polo il quale, se di certo non impedirà a questo mondo di deviati di essere
quello che è, varrà però a trasmettere a qualcuno la sensazione della
verità-sensazione, che potrà fors'anche essere principio invisibile di qualche
crisi liberatrice.”
Makarska - Croazia 2015